giovedì 29 agosto 2013

Il biciclettaio di via Fioravanti


« La ruota gira e il cerchio si deve chiudere » disse il biciclettaio sorridendo.
Il termine ‘biciclettaio’ non esiste. Sarebbe più corretto “ciclista”, ma poi lo si confonderebbe con quello che le bici le guida, non le ripara; oppure lo si potrebbe chiamare “meccanico per biciclette”, ma suonerebbe troppo eccentrico per un mestiere umile come questo. Ad ogni modo, anche se biciclettaio non esiste, lui non lo sa, tutti gli portano la bicicletta e lui le aggiusta.


Conosco due persone che fanno questo lavoro, una sta a Codigoro, mio paese natìo nella bassa ferrarese, e l’altra a Bologna, dove vivo e lavoro. Vorrei raccontare di questi due personaggi perché hanno in comune una storia, legata a una bicicletta che per qualche tempo è stata mia.


Giorgio ha più di sessant'anni, da sempre è il biciclettaio di Codigoro. E’ un uomo magro magro, con i capelli grigi impomatati, pettinati all’indietro, e due grandi occhiali da vista le cui lenti, con il tempo, hanno aumentato il loro spessore. Il suo negozio è composto da una sola immensa stanza, completamente zeppa di vecchie biciclette, accatastate le une sulle altre. Lui sta invece vicino alla porta d'entrata, dietro la vetrina, riservandosi quel tanto di spazio che basta per armeggiare attorno alla due ruote di turno, capovolta e poggiata per terra su sellino e manubrio.
Ogni tanto riesce a mettere ordine, ma non dura mai più di un giorno, come se altre bici giungessero di nascosto, nella notte, in fila indiana, venute chissà da dove e sotto chissà quale bizzarra magia, per affollare la stanza fino a saturarla.
Ma osservando meglio, con più attenzione, si intuisce che una qualche regola per posizionare tutto quel materiale è stata rispettata. Un’organizzazione c’è, seppur incomprensibile ai più. E c'è un motivo se niente viene buttato, poiché tutto, prima o poi, potrebbe tornare a nuova vita.


Ci salutiamo, con il sorriso di amici che non si vedono da tempo. Prende uno straccio per pulirsi le mani e mi raggiunge sulla porta. Allungo una mano ma non me la stringe.
« Scusami, sono sporche di grasso » dice mostrandomi un palmo nero.
« Fa niente. »
« Come posso aiutarti? »
« Mi servirebbe una bici da portare a Bologna » gli rispondo.
« Ah, la porti a Bologna. » I suoi occhi si illuminano « Come la vuoi? »
« La più vecchia che hai, le rubano in continuazione... »
Così Giorgio si sposta verso il fondo della grande sala, percorrendo uno dei sentieri venutosi a creare tra le cataste di metallo aggrovigliato, scomparendo dietro una di queste e ricomparendo giù in fondo, vicino a un altro gruppo di scheletri di ferro. Sposta un paio di biciclette, ne tira fuori una per me. Blu. Ritorna pedalando su di essa, facendo attenzione agli ostacoli sporgenti.
« Che ne dici di questa? » mi chiede e, senza aspettare risposta, la capovolge sottosopra e comincia a controllare catena e pedali, chinandosi su di essa.
« Ah, va benissimo. »
« Era di mia moglie, » mi racconta senza voltarsi « grazie a questa l’ho conquistata. »
« Veramente? E sei sicuro che vuoi darla a me? »
« Se la porti a Bologna, sì. Viene da là e vorrei vi tornasse. »
« Ah. » Non capisco ma annuisco.
« La ruota gira e il cerchio si deve chiudere » così dicendo tira verso il basso uno dei raggi facendo girare la ruota anteriore in senso antiorario e sorride.
Giorgio spesso è enigmatico e dà sempre l’impressione di sapere più di quanto non dica.
Ed è impegnativo intrattenere una conversazione con lui. Ci perdiamo in chiacchiere tutt’altro che banali, passando dalla filosofia dei razionalisti alla letteratura russa. Perché Giorgio è il biciclettaio di un piccolo paesino di provincia ma legge Dostoevskij. Non che una cosa debba per forza escludere l’altra ma di certo è insolito. Ha una visione della vita molto inquadrata, liberale e conservatrice, ma anche coerente e degna di attenzione, frutto di continui confronti quotidiani coi clienti che non mancano mai di sostare sulla sua porta. Come me, in questo momento.
Parliamo, mentre rimonta la carenatura: condivido molte sue idee sulla società che sta cambiando, sulla perdita delle tradizioni e dell’identità culturale, lo contraddico solo quando critica i giovani delle nuove generazioni.
« Non hanno né fame né ambizione, sono degli smidollati come Stepan Trofimovič. »
« Eccolo, lo sapevo che prima o poi avresti tirato in ballo “I Demoni”! » replico « Ma non siete forse stati voi, i nostri genitori, a sfamarci, avendo avuto la fortuna di vivere il cosiddetto “miracolo economico italiano”? »
« L’abbiamo voluto creare, quel miracolo, con volontà e passione, lavorando una vita. Ora dicono che il lavoro manca ma il lavoro lo si crea o lo si cerca, chi resta a casa non lo trova di sicuro! »
« Se di lavoro non ce n’è, hai voglia a cercarlo! La crisi di oggi è dovuta a decisioni prese da politici che voi avete votato negli ultimi decenni. E poi oggi la nostra economia si deve confrontare con quella dei paesi del resto del mondo. Le aziende chiudono! »
« La politica è sempre quella, un branco di maiali, sono cambiate le facce ma non il modo di gestire il potere. E nonostante questo, » insiste « noi siamo riusciti a costruire un paese. »
« Lasciandoci un sacco di debiti » faccio notare. « Questo tenore di vita che abbiamo sempre visto crescere, non è più possibile per tutti, né sostenibile per il pianeta. Non ce lo possiamo permettere di essere ambiziosi e pretendere di avere tutti due case, due macchine o più. »
“Se tutti andassero in bicicletta, il problema sarebbe risolto!” esclama.
“E tu saresti l’uomo più ricco del paese!” concludo.
Ne ridiamo assieme. Finisce patta, ognuno resta sulle proprie convinzioni ma ognuno porta a casa un nuovo punto di vista su cui riflettere. Io anche una vecchia bicicletta blu.


Stavo tornando dal lavoro. Dopo alcune settimane di viaggi, avanti e indietro per le vie dissestate del centro di Bologna, la vecchia bici blu aveva cominciato a dare segni di cedimento: se spingevo sui pedali con forza, sentivo che di lì a poco qualcosa si sarebbe rotto.
Stavo dunque pensando a dove portarla a riparare, fermo al semaforo del ponte della stazione di Bologna, quando qualcuno mi ha toccato il braccio.
Mi sono voltato e ho trovato un ragazzo sui venticinque anni con capelli lunghissimi, raccolti dietro la nuca, vestito in modo un po’ trasandato e colorato.
« Hai visto? » mi ha chiesto indicando la bici su cui era seduto « sono uguali. »
Ho guardato la sua, poi la mia. Effettivamente erano proprio uguali, e per due bici così vecchie era una straordinaria coincidenza, ma non ho replicato visto la stranezza dell’approccio.
« Però la tua è da donna e la mia è da uomo » mi ha fatto notare.
« Dunque? »
« Vorrei proporti uno scambio, ma non con questa. Ti spiego, ho cominciato ad aggiustare biciclette da un paio d’anni, in via Fioravanti, e ho da poco comprato una Legnano rossa a un’asta, l’ho rimessa a posto proprio in questi giorni. E’ una gran bici ma io vorrei la tua. »
« Perché la mia? » ho domandato incuriosito.
« Perché se mi dai la tua posso regalarla alla mia ragazza. Abbiamo litigato e vorrei far pace e credo che » imbarazzato ha cercato le parole per continuare « che... sì, sarebbe carino andare in giro per la città con le biciclette uguali, io con quella da uomo e lei con quella da donna. »
Ero colpito. Ma il mio scetticismo era maggiore del mio stupore.
« Ora ho da fare, lasciami il numero, ti richiamo e vengo a vedere l’altra bici. »
Lungo la via del ritorno ho riflettuto sulla possibilità del baratto:
« O vuole rifilarmi una bici rubata oppure è veramente innamorato e, di conseguenza, un po’ rimbecillito. In ogni caso, questa bici è veramente vecchia, ha bisogno di una revisione e andare a vedere l’altra non costa nulla. Ho deciso, andrò. »


Nonostante i normali acciacchi, quella che guidavo era una signora bicicletta, di un colore blu scuro che a tratti diventava rugginoso. La chiamo ancora “signora”, sia perché, essendo senza cannone, è considerata da donna, sia perché era meccanicamente perfetta, nonostante alcune parti fossero state sostituite con quelle di altre bici. Quando incontravo una leggera discesa potevo smettere di pedalare, sembrava che l’attrito svanisse e che il mezzo si librasse a mezz’aria, avanzando all’infinito, per inerzia, con il ticchettìo monotono della ruota posteriore come unico accompagnamento musicale.
Mi sono spesso chiesto come fossero le biciclette da cui Giorgio ha preso i pezzi per mantenere viva la signora blu. Quanti chilometri devono aver percorso e quante vicissitudini dei loro padroni devono essersi incrociate e sovrapposte lungo le strade del tempo.


Arrivato all’indirizzo dato dal figlio dei fiori, trovai una sorpresa: al posto di un’officina o di una normale abitazione, come mi sarei aspettato, c’era un centro sociale occupato.
Entrai comunque dal cancello, portando la bici a mano, e chiesi al primo passante, un ragazzo con la barba incolta, vestito con un eskimo e un vecchio numero dell’Unità sotto braccio, se conosceva il biciclettaio.
« Sì, sta proprio là » mi rispose indicandomi una delle entrate dell’edificio.
« Grazie compagno » alzai il pugno sinistro, per scherzare, ma il giovane replicò serio con lo stesso gesto della mano chiusa. “Che bello” pensai dirigendomi verso il punto indicato “esistono ancora i comunisti nei centri sociali, pensavo si fossero estinti con l’avvento degli smartphone.”
Dall’enorme porta lasciata aperta sentii diffondersi nell’aria le note della chitarra di John Fahey (solo successivamente seppi che quel particolare bellissimo pezzo, figlio degli anni 60, si chiamava “Bicycle Built For Two”).
Entrai e mi arrestai sulla soglia perché mi si era presentato uno spettacolo davvero inaspettato: decine e decine di biciclette accatastate le une sulle altre, in un ordine caotico ben familiare.
Il giovane fricchettone, poco distante, stava lavorando su una bici, poggiata a terra, sottosopra; vedendomi sorrise e abbassò il volume della vecchia radio.
“C’è qualcosa di diverso il lui” pensai “forse gli occhiali da vista, non mi pare li portasse ieri.”
« Me l’hai portata! » quasi urlò entusiasta pulendosi le mani con uno straccio.
« Eh sì, ma davvero... non so se ti conviene questo scambio, il pedale mi sta dando problemi, forse bisogna stringerlo. E uno dei freni... sì insomma, frena poco. »
« Non ti preoccupare, ci penso io, dopo averla controllata sarà come nuova! »
Mi mostrò la bici rossa che voleva darmi in cambio, la provai nello spazio antistante e pensai subito, dopo un paio di pedalate, che era decisamente un buon affare.
Prima di andarmene con il nuovo mezzo, mi fermai sulla soglia e mi voltai.
Il ragazzo mi guardava con occhi amichevoli, tenendo la signora blu davanti a sé.
« Bel casino qui, eh? » mi guardai attorno, sembrava una discarica di materiale ferroso.
« Eh già » sorrise il ragazzo « qui tutti portano un po’ di tutto, per cercare di salvare il salvabile e riutilizzare ciò che può tornare utile. »
« E’ una buona cosa. »
« Un giorno, comunque, vorrei comprarmi un’officina mia. »
« Sempre qui a Bologna? »
« No, in un posto più tranquillo, tipo a Codigoro. »
« Hai detto Codigoro? »
« Sì, la mia ragazza è di là. »
« Ma dai, anch’io! » feci un passo verso di lui e allungai la mano, presentandomi.
« Scusami, ho le mani sporche di grasso. Mi chiamo Giorgio. »
« Fa niente, » come destato da quel nome, gli chiesi « Giorgio... ci conosciamo? »
« Oh sì » mi rispose sicuro il ragazzo « abbiamo parlato di Dostoevskij, tanto tempo fa. »
Osservai con attenzione gli occhi dietro le lenti.
« Non è possibile tu sia... »
« La ruota gira e il cerchio si deve chiudere » disse il biciclettaio sorridendo.

domenica 18 agosto 2013

Red Apple (parte 3)

“Abbiamo perso, Signore” comunicò il capitano Alfan guardando verso il basso i dati che apparivano sulla superficie trasparente del grande tavolo.
Le undici donne, disposte uniformemente attorno, rimasero in silenzio, sedute compostamente.
Il governatore B si muoveva lentamente alle loro spalle, lievitando su una piccola piattaforma antigravitazionale che compiva, fluttuando in senso antiorario, l’intero moto di rivoluzione. Era vestito elegantemente, come sempre, con un completo firmato ValentinE, provvisto dell’ultimo microprocessore da 9000 yottahertz. Tra le mani teneva un oggetto che stonava sia con il suo abbigliamento, sia con il contesto: una mazza da baseball in acciaio, nera.
"C’è però una buona notizia" il militare, non ricevendo nessuna replica, lesse un frammento dalle notizie riportate sul tavolo:
"Grils, a capo della ribellione sul pianeta Verde, ha convinto gli altri attivisti a non scendere a compromessi con nessuno. Questo vuol dire...”
Si interruppe. Seguì il governatore con la coda dell’occhio finché non lo vide sparire alla propria sinistra. Era dietro di lui, ora. Una goccia di sudore scese lungo la guancia di Alfan.
“Continui, capitano” disse perentorio B rispuntando alla sua destra, trasportato dalla piattaforma che procedeva silenziosamente a mezz’aria.
“Questo vuol dire” si schiarì la voce “che gli altri gruppi, senza l’appoggio del pianeta verde, non potranno ottenere una maggioranza per formare il nuovo governo galattico. Hanno bisogno di noi. Se tutto va come deve andare, resteremo dove siamo, al potere.”
Il governatore appariva calmo, posato, teneva entrambe le mani sulla mazza da baseball che ammirava con attenzione, noncurante di queste notizie. Ma c’era qualcosa sul suo viso che un osservatore più attento avrebbe potuto certamente notare: una vena sulla fronte che pulsava insistentemente e che Alfan aveva riconosciuto fin dall’inizio della riunione.
“C’è altro?” chiese B.
“E’ arrivata la sentenza definitiva” non esitò a rispondere, voleva togliersi quel dente che gli doleva tanto da fargli perdere il controllo neurale del dispositivo anti-sudorazione della divisa.
“Vogliamo rendere partecipe l’intero consiglio?” suggerì accompagnando le parole con un ampio movimento della mano che reggeva la mazza.
“Colpevole. Quattro anni per aver frodato la repubblica galattica” la voce di Alfan sembrava sempre meno sicura, il suo viso più madido.
“Ripeta più forte!” ordinò B mentre oltrepassava l’altro capo del lungo tavolo.
“Lei è stato condannato a quattro anni, Signore. Ma non deve temere. I suoi cloni penalisti si sono già messi in moto e utilizzeranno come carta vincente proprio il fatto che il governo non si potrà formare senza di lei. Sono obbligati a lasciarla libero!”
Il volto del governatore era inespressivo, solo quella vena sulla fronte continuava a pulsare imperterrita e i suoi occhi avevano in quel momento qualcosa di atavico, anzi, di primordiale, una luce che è propria delle bestie, una luce che pochi avevano conservato nel proprio DNA.
“Questo” sollevò la mazza da baseball “è un pezzo d’antiquariato che non ha prezzo. E’ ritenuto l’ultimo esemplare esistente nell’intero universo, dopo la distruzione del pianeta Terra da cui proviene. Lì veniva utilizzato, nel ventesimo secolo, come strumento in un gioco di squadra.”
Una delle donne sospirò, languida, un’altra annuì con convinzione mostrando interesse.
“Anche noi siamo una squadra” cominciò a declamare il governatore mentre passava dietro il capitano Alfan. Quest’ultimo chiuse gli occhi e trattenne il respiro finchè la voce non riprese.
“E in ogni squadra tutti partecipano per giungere alla vittoria” si fermò dietro a una donna che indossava una tuta bianca. Le appoggiò una mano su uno dei seni, strizzandolo con forza. Lei aprì la bocca stupita ma subito dopo gli sorrise, con un’espressione estasiata.
“Carfa40, per esempio, è riuscita a sensibilizzare l’opinione pubblica tramite la definizione di uno spot neurale che è tra i più convincenti che io abbia mai visto.” Il settantenne baciò la giovane donna infilandole la lingua in bocca, poi si rialzò e riattaccò “Dopo aver caricato due volte nella mia memoria questo spot neurale mi stavo convincendo io stesso di essere innocente” tutte risero, lui continuò a fluttuare attorno al tavolo, sorridente, fermandosi dietro un’altra donna.
“Santan3” infilò una mano dentro la scollatura della tuta blu della donna “si è lavorata i controllori del primo e del secondo livello, riuscendo a trovare precedenti che consentissero di applicare la legge galattica in modo assolutamente originale” tutte risero ancora. Alfan seguiva il discorso cercando di partecipare all’ilarità generale ma non riusciva a nascondere la preoccupazione e il sudore che imperlava fronte e guance.
“Tutti noi facciamo parte di una squadra” palpeggiò un’altra donna sorridente, senza guardarla né fermarsi “e se è vero che solo uno di noi vince mentre gli altri lo aiutano a raggiungere il traguardo,” il tono della voce andò in un crescendo coinvolgente “non è forse anche vero che quella vittoria diviene la vittoria dell’intera squadra?”
“Vero!” risposero tutte le donne in coro, una tuta nera si asciugò una lacrima di commozione, un’altra rossa gemette e portò una mano in mezzo alle gambe.
“E allora vorrei sapere dal capitano Alfan perchè non sta aiutando la propria squadra”
“Vede ma io...”
“Vorrei sapere dal capitano Alfan perchè non abbiamo vinto anche sul pianeta verde.
Vorrei sapere dal capitano Alfan perchè non ha comprato i controllori del terzo livello.
Vorrei sapere dal capitano Alfan perchè tutti i suoi compiti non sono stati portati a termine, mentre questi nuovi splendidi cloni hanno eseguito alla lettera quanto da me ordinato”.
Alfan, grondande di sudore, balbettò le proprie giustificazioni con poca convinzione, mentre il governatore gli si avvicinava fluttuando:
“Sul pianeta verde... gli spot neurali non sono più obbligatori per legge, gli abitanti non accedono più ai canali mediatici, di nessun tipo e... e i controllori di terzo livello sono inavvicinabili!”.
Una delle donne al tavolo si lasciò sfuggire un risolino a cui ne fecero eco altri, in tutto e per tutto identici a quello.
“Come osate ridere di me?” il militare si alzò in piedi “Voi! Voi che siete solo... cloni!”
“Alfan, siediti” il governatore, che nel frattempo si era avvicinato, gli posò una mano sulla spalla.
“Ma io...” sconsolato si rimise al suo posto mentre B, dietro di lui, continuò con tono più calmo:
“Vedi, io ti conosco da molto tempo. Io e tuo padre eravamo grandi amici, lo sai. E io ti voglio bene come a un figlio” il tono della voce aveva perso la ferocia di poco prima.
“E io a voi come a un padre!” esclamò commosso il capitano senza voltarsi.
“Ma questa è una squadra. Non importa chi vi sia dentro, da che pianeta vengano i suoi membri, non importa che siano nati con fecondazione assistita o invece clonati, e non m’importa neppure come giochino, l’importante è una cosa sola: vincere.”
“Lo so, mi dispiace”
“Tu, Alfan, hai rischiato di farmi finire fuori dal gioco.”
“Ma Signore io...”
“Taci. Io sono molto paziente. Mi sei rimasto solo tu, dei vecchi ‘veri umani’, ci tengo a te.”
Alfan fece un lungo profondo sospirò, era sollevato e allo stesso tempo commosso e pieno d’affetto per quell’uomo che ammirava così tanto. Pensò a quando da piccolo il padre lo aveva portato dallo zio B a giocare sul suo satellite personale, dove il tramonto durava un giorno intero, quante risate e quanti bei momenti avevano vissuto assieme. In quel preciso momento una mazzata colpì la testa di Alfan, un colpo secco e potente che fece schizzare sangue sulle donne più vicine. La testa di Alfan cadde in avanti, sulla superficie trasparente, dalla bocca uscì copiosamente del sangue, alcuni spasmi muscolari al collo lo fecero sussultare e così B lo colpì ancora una volta e poi un’altra e un’altra, finchè Alfan non si mosse più.
Le donne sedute al tavolo non avevano reagito con nessun particolare gesto di stupore. Avevano guardato la scena con distacco. Alcune di loro, dopo essere state schizzate di sangue sul viso, semplicemente sorrisero, con un’espressione illogicamente dolce e affettuosa.
“Ragazze” guardò i cloni seduti al tavolo “l’ho sempre pensato ma mai come oggi ho voluto dirlo ad alta voce: voi del progetto Red Apple siete il futuro, l’umanità è roba sorpassata.”
Applauso unanime.

sabato 10 agosto 2013

15 Anni

L'anno scorso, in questo periodo, avevamo da poco ultimato le riprese di "15 Anni".

Qualche mese prima era uscito un bando di concorso per cortometraggi sulla "web repudiation" e negli stessi giorni avevo partecipato a una cena di ex compagni di classe delle superiori, che non vedevo da più di dieci anni. Così, quando ho cominciato a scrivere, mi è venuto quasi naturale riutilizzare alcuni ricordi della serata, modificando l'ambientazione e i personaggi e inventandomi di sana pianta una trama che puntasse ad affrontare una tematica come la "reputazione sul web".

La prima versione della sceneggiatura l'ho scritta in una sera, in quattro o cinque ore di lavoro, poi l'ho rivista diverse volte con alcuni dei Dirty Drunks, che mi hanno dato preziosi consigli.
Dopo alcune settimane il concorso era ormai scaduto, ma avevamo uno script che mi sembrava interessante da girare, poteva essere prodotto totalmente in casa, a parte un paio di inquadrature in esterno notte.


Come si potrà notare il cortometraggio è caratterizzato da una moltitudine di stacchi tra le diverse inquadrature, tutte pensate per essere raccordate tra loro.
Questa scelta è stata inevitabile per due motivi:
1. gli attori non erano professionisti: inquadrature brevi hanno permesso di ripetere la battuta finché non la si otteneva come la si voleva;
2. gli attori che non vengono pagati danno (giustamente) una disponibilità limitata: con il precedente corto, "Sfrattate", c'avevamo messo quasi un anno a organizzare le varie sessioni di ripresa; a questo giro ho organizzato le riprese in sole 4 serate, in questo modo:
- visioni di insieme;
- solo maschi;
- solo femmine;
- solo Sonia ed esterni.

Il montaggio è andato veramente per le lunghe ed è stato un lavoraccio raccordare e unire tutte le inquadrature girate. Ma alla fine, dopo un lungo inverno, per Marzo 2013 il cortometraggio era pronto.