domenica 19 maggio 2013

Il branco dell'11C



Uscito dal lavoro, arrivo alla solita fermata dell’autobus e poco dopo vedo arrivare l’ 11C.
E’ in anticipo di un paio di minuti.
L’entrata posteriore si apre, sto per salire quando noto un ragazzo che corre come un forsennato, zaino in spalla, a una cinquantina di metri dietro il mezzo.
Allora esito, cioè, metto un piede sul primo scalino ma con l’altro rimango ancora sul marciapiede, salgo, ridiscendo, restando in bilico tra l’interno e l’esterno del bus, la porta tenta di chiudersi ma sbatte contro il mio braccio, si riapre, io faccio per salire ancora poi no, scendo, come un ubriaco indeciso, infine salgo assieme al ragazzino che, trafelato, mi ha raggiunto.


Sull’autobus si respira sempre un’atmosfera familiare, dopo anni di viaggi andata e ritorno casa-lavoro, le facce ormai le riconosci, sono sempre le stesse.

Non ho mai rivolto parola a nessuno ma, ad alcuni, mi verrebbe voglia di parlarci:
“Ehi Carlo, come va? Com’è finita poi con tua moglie? L’altro giorno al telefono ha davvero sbraitato come una pazza, sei stato bravo a mantenere la calma”; oppure
“Ciao Maya, finalmente hai partorito, come sta il piccolo Marco? L’ho visto crescere ogni mattina nel tuo pancione, mi sento un po’ zio”; e ancora
“Hassan, hai poi trovato lavoro?”;
“Gina, ti duole ancora la gamba? Pina pensaci tu a lei, due sorelle devono sempre aiutarsi”;
“Angelo, com’è andato il tuo concorso? Sei in finale?”;
“Filippo non essere triste, Giulia sta col tuo amico, lo so, alle superiori è difficile, tieni duro, il bello deve ancora venire”;
“Marta, non parlare da sola facendo finta di essere al telefono, lo vediamo tutti che non hai nemmeno l’auricolare, la gente penserà... ma sì, continua, non è un problema, sei tra amici qui”.
Eppure, a volte, ho come il sentore che alcuni di loro possano leggere i miei pensieri.
E’ come essere a casa, in famiglia, però la casa è un autobus e siamo costretti a passare assieme solo venti minuti. Forse è questo, lo stare assieme un po’ ogni giorno, che crea una sorta di empatia. Ognuno di noi sa cosa vuol dire essere passeggero dell’11C.

Il ragazzo mi ringrazia per avergli permesso di salire e io vorrei dirgli:
“Se non ci si aiuta tra noi” ma mi limito a un cortese “prego” e mi siedo nel primo posto vuoto che trovo.
Un passo pesante e veloce arriva dalla testa dell’autobus: è l’autista.
“Mi dia un documento!” urla ferocemente.
“Cosa?” sul momento non capisco ma realizzo ancor prima della spiegazione.
“Lei ha fermato un servizio pubblico, mi dia un documento” continua con lo stesso tono.
Io tiro fuori lentamente il portafogli, cercando di motivare la mia azione:
“Il ragazzo stava correndo per non perdere l’autobus, ho solo pensato che …”
“Mi dia il documento!” ordina nuovamente l’autista con il viso paonazzo dalla rabbia.
Due grosse signore bolognesi, che si erano voltate al primo urlo, intervengono dalla loro postazione:
“Senta un po’, lei, giovine” dice una.
“Sa che lei è proprio un villano?” continua l’altra “Voi autisti siete tutti sgarbati!”
“Proprio ieri uno come lei non mi ha aspettato in piazza dell’Unità” riprende la prima “cosa dovremmo fare secondo lei per essere notate?”
“Perchè voi lo specchietto per vedere dietro ce l’avete o no?” le due si alternano come in una partita di ping pong, devono essersi allenate per anni.
“E quindi potreste usarlo lo specchietto e aspettarci se stiamo arrivando, eh!”
“Invece di partire mentre stiamo correndo, alla nostra età!”
L’autista è basito, ha provato a replicare tra la prima e la seconda battuta ma ha desistito, solo ora ha l’occasione di dire la sua.
“Il signore qua ha bloccato un servizio pubblico... “ mi indica ma ormai la sua attenzione è tutta per le due donnone.
“Se è un servizio perchè non ci serve, allora?” riparte la prima signora.
“Io pago il biglietto e voi fate come vi pare!” prosegue la seconda.
“E non avete rispetto!”
“E arrivate tardi!”
“Costa il biglietto, veh!”
“E arrivate con tre autobus uno dietro l’altro, per poi farci aspettare un’ora senza!”
“E quando non si fermano? Perchè se non alzi il braccio mica si fermano!”
“Mica stiamo lì ad aspettare il fidanzato!”
I presenti ridono, l’autista ormai non mi guarda più, cerca di replicare, con meno convinzione:
“Il signore qua ha bloccato l’autubus e deve... deve essere multato”.
“Ma quale multa...” questa volta è un omone nero e grosso, a parlare, dietro di lui altri due lo seguono, sembrano appena usciti da un film di Spike Lee.
“E la pianti” continua una donna con un passeggino “le signore hanno ragione, se voi autisti aspettaste chi arriva di corsa, non ci sarebbe bisogno di bloccare il mezzo. Il signore è stato un gentiluomo, ce ne fossero così!”
“Sì, ha fatto bene” dice una ragazza seduta dietro.
“Ha fatto bene” fa eco un altro e un’altra ancora, non so se essere più commosso o più stupito.
L’autista si guarda attorno, è circondato da volti determinati a far valere le proprie ragionii.
“Va bene, questa passi” mi dice senza guardarmi, poi aggiunge timidamente, “ma che non si ripeta” e si avvia verso la testa del bus.
“Bravo giovine, torna a fare il tuo lavoro” gli fa la prima signora vedendoselo passare di fianco.
“Ti pagano con i nostri soldi, sai?” conclude la seconda.
L’autista sbuffa, torna al posto di guida e l’autobus riparte.
Passo in rassegna uno ad uno i presenti che sono intervenuti in mia difesa: le signore Gina e Pina, poi Hassan, Maya, Angelo e infine Filippo, che mi ringrazia un’ultima volta per la cortesia.
Tutti mi guardano con approvazione e anch’io non posso che essere grato.
Domani un altro giorno di lavoro ci aspetta, in ufficio, in un cantiere, a scuola, in un supermercato o in casa con un bambino da accudire e la spesa da fare. Ma ci vedremo ancora, sempre qui, in questa scatola su quattro ruote in cui, per alcuni minuti al giorno, siamo il branco dell'11C.

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