martedì 19 febbraio 2013

"Born to Run" cap 4,5,6 di 12

4.
Mio padre morì in prigione gridando la propria innocenza.
Lo immagino tra quattro mura, senza poter uscire e camminare libero.
Senza poter correre.
Poco tempo dopo fu trovato un altro uomo, con la refurtiva. Dissero che assomigliava molto a mio padre. A me non sembrava. Il ladro aveva occhi di un altro colore, una fronte meno spaziosa, un naso più grande, guance grassocce anzichè scarne, però sì, aveva anche lui la barba. Due gocce d’acqua.
Solo mia madre credette alla sua innocenza: “La verità sul suo viso era evidente” ripeteva “chiunque gli avesse voluto bene avrebbe potuto vederla”. A me questa frase suonava come un rimprovero, anche se lei non sapeva che avevo dubitato di lui.
Non potrò più dirgli “scusa papà, non ti ho creduto, ho pensato che gli altri avessero ragione. Sei un bravo papà, perdonami.”  
Uscita la notizia dell’innocenza di mio padre la gente cominciò a venire a casa nostra: una lunga processione di persone che venivano a ripulirsi la coscienza. Ma dopo aver infamato e deriso qualcuno non esistono scuse che possano riparare al danno. Avevano rubato qualcosa che, anche se lui fosse rimasto in vita, non poteva più essere restituita.
“Sai, ci spiace tanto” aveva detto una grassa signora a mia madre “ma le prove sembravano così... Proprio nessuno avrebbe...” non rimasi a sentire il resto. Mi misi le scarpe da ginnastica, scesi le scale di soppiatto, attraversai la piccola lavanderia, tra i panni stesi ad asciugare, e uscì dal retro. Cominciai a correre, piangendo, senza voltarmi, fino a quando le gambe e i piedi non mi fecero male, fino a quando non ebbi più fiato e i polmoni non cominciarono a bruciare. Tornai ore dopo. Mia madre non mi aveva chiesto dove fossi stato e non me lo chiese mai, anche le volte successive in cui l’episodio si era ripetuto. Preferiva io non sentissi le poche parole che era costretta a dare loro in risposta, con un sorriso di circostanza. Se in quel piccolo paese non si fosse cercato di andare d'accordo con tutti, la vita sarebbe potuta divenire un inferno ancora peggiore di quello che già stavamo vivendo. La capivo. Lei non poteva correre via come facevo io.
Senza dir nulla, perché nulla c’era da dire, accettavamo la situazione e reagivamo come ognuno di noi era in grado di fare. Così passarono settimane. Piangendo. Correndo.

Ora, nella pista circolare della scuola, mi tengo a distanza dai compagni di classe, continuando a correre anzichè unirmi a loro. Mi sento come un satellite che non può avvicinarsi al pianeta attorno al quale ruota perché, se è vero che una forza di gravitazione lo attrae, e quella forza per me era mia madre, un’altra forza lo costringe verso la fuga dalla propria orbita. Correre mi permetterà un giorno di fuggire, da tutto e da tutti.

5.
La nostra insegnante di educazione fisica è solita impartire gli ordini con severità ma non ci fa mancare un sorriso, di tanto in tanto. E’ una dei pochi abitanti del paese che riesco a sopportare. Dopo la morte di mio padre ha cominciato a riservarmi una gentilezza speciale che a volte mi fa sentire diverso. Ma non mi dispiace, ne ho bisogno. Ho bisogno di sapere che nel mondo non ci sono solo imbecilli.
Sento il fischietto squillare e la sua voce urlare, mi volto verso il centro della pista ma non è me che vuole riprendere, sta sgridando Duetti e Carlin. I due ripetenti mi indicano, lei si volta e il suo sguardo incontra il mio.
“Pascal! Ma cosa stai facendo?” il suo tono è molto stupito ma non severo.
“Prof” interviene Sonia facendo un passo fuori dal gruppo “posso andare a parlargli io?”
Sonia comincia a correre verso di me, la donna torna alla lezione.
Io continuo a correre nella pista, in senso antiorario. Sonia mi raggiunge, io mi sposto verso l’esterno, nella seconda corsia, e rallento per lasciare che si affianchi alla mia sinistra, che prenda la mia andatura.
“Mi manchi” mi dice subito.
“Sono qua” rispondo.
“Cosa?” ride.
“Come posso mancarti se sono qua?” le dico da vero duro o perfetto idiota.
Lei sorride e i suoi occhi, due perle nere di bambina che sta diventando donna, si illuminano. Non replica, forse non ha capito il gioco di parole.
“Ci vediamo oggi pomeriggio, dopo pranzo?” le chiedo intraprendente. Non stiamo assieme ma ci siamo baciati, una sola volta. Era stato il mio primo bacio. Era da un po’ che non ci “frequentavamo” più ma non ricordavo il perché.
“E’... è incredibile!” Sonia si volta verso il centro della pista e comincia a urlare come una pazza “Prof! Venite tutti!” mi prende per un braccio, quasi mi fa cadere e mi trascina verso il campetto centrale. “Prof!”
Io mi libero dalla presa e mi fermo, non voglio essere trascinato su un palco per essere deriso dalla classe e mi sembra che Sonia stia per fare proprio questo.
Si ferma anche lei ma sorride ancora, guarda me, poi la prof e i compagni di classe che richiamati dai suoi urli si sono voltati.
“Perché lo hai fatto?” le chiedo deluso.

6.
Sono passate quattro settimane da quell’episodio.
Oggi mi è venuto in mente ma non riesco a ricordare come si è concluso. Che ha la mia memoria che non va? Sento che mancano dei “pezzi”.  
Eppure quando corro riesco a pensare bene, come ora, mi sento lucido e la mia mente è sgombra. Sono quattro ore che vado avanti e indietro lungo la provinciale che collega il mio paese a quello vicino. Anche oggi migliorerò il mio tempo.
Devo ammettere che vivere in un piccolo paese ha i suoi lati positivi, se ami la natura: la strada che ho percorso costeggia il fiume e sulla superficie dell’acqua, tra le due sponde erbose, oggi ho visto volare due aironi.
Insomma, non è poi così male, non ci sono solo nebbia e zanzare come alcuni pensano.
All’entrata del paese, in lontananza, riconosco la figura di Sonia, in maglietta e pantaloncini, i capelli legati in una coda di cavallo. Come ogni pomeriggio mi sta aspettando per correre assieme l’ultimo tratto. Non posso fare a meno di notare che il suo corpo sta cambiando. Sta divenendo... non so come dire, più bello. Comincia a correre prima che io l’abbia raggiunta. E’ veloce ma la supero facilmente e devo rallentare per non lasciarla indietro. La preferisco accanto a me.
“Ciao Road Runner” mi sorride.
“Ciao Wendy” le rispondo “anche oggi hai tagliato il percorso eh?”
“Stupido, solo perché non posso competere, non ti montare la testa!” si avvicina, mi prende per un braccio con entrambe le mani, mi attira a sè, mi bacia mentre corriamo. Un bacio breve ma intenso. “Mi piace questo ‘Wendy’, mi dici ancora da dove salta fuori?”
“Viene da una canzone di Springsteen che piaceva a mio padre.”
“Che hai detto si chiama... ?”
“Born to Run”
“Born to Run, nato per correre, direi che è azzeccata per te.”
“Nati per correre” sottolineo la ‘i’ del plurale “l’autore parla di se stesso e della donna amata, Wendy per l’appunto.”
“La donna amata” esita Sonia cercando le parole “a me suona come una dichiarazione.”
“E’ la canzone che fa così!” e per togliermi dall’imbarazzo comincio a canticchiarne le parole, intervallandole col respiro della corsa, in un inglese non privo di imperfezioni:

Wendy let me in
I wanna be your friend,
I want to guard
your dreams and visions

continuo il resto della strofa canticchiando il motivo della canzone, senza parole.
“Che vorrebbe dire?”
“Vorrebbe dire che devi studiare di più l’inglese!”
“E’ la tua pronuncia ad essere orribile!”
Ridiamo, abbiamo superato la fabbrica abbandonata e ormai siamo dentro il paese.
“Dovrebbe voler dire qualcosa del tipo: Wendy, lasciami entrare, voglio essere tuo amico e voglio proteggere i tuoi sogni e le tue visioni”.
“Amico” ripete delusa.
“Ti assicuro che non sono amici. E poi dice ‘lasciami entrare’. Secondo te, dove?”
“Scemo!” mi da’ un pugno sul braccio ma ne ridiamo entrambi.
“Stavo pensando che” esito cercando le parole “che potresti venire da me, stasera.”
“Io...” vedo un suo sorriso accendersi ma è un istante, si spegne subito dopo.
“Non so. Mi piacerebbe molto ma... i miei non mi fanno uscire la sera e... forse non è ancora il momento.”
“Va bene” le dico per chiudere l’argomento, sento che sta diventando imbarazzante per entrambi. Mi ha detto di no. Che altro c’è da dire?

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