sabato 23 febbraio 2013

"Born to Run" cap 10,11,12 di 12

10.
“Stavi correndo nella pista della scuola...” racconta mia madre.
“Sì, lo ricordo” guardo Sonia mentre continuo a saltellare sul posto “ci pensavo proprio oggi, è stato quando t’ho chiesto di uscire, no?”
“Sì” mi risponde dolcemente, lasciando poi continuare la donna.
“Stavi correndo e abbiamo scoperto che, quando corri, torni a... “ cerca le parole “torni a essere te stesso. Sei completamente tu, come prima.”
Io guardo mia madre, poi Sonia.
“Che vuol dire che torno me stesso? Sono un lupo mannaro? Un vampiro?” rido.
“No... Solo che arriva meno sangue al tuo cervello, cioè, ne arriva per non divenire catatonico, ma non abbastanza per essere lucido e cosciente”.
Io aspetto che si metta a ridere ma non succede.
“E perché? Come sarebbe possibile?” voglio vedere fin dove si spinge la loro inventiva.
“I dottori ci hanno spiegato che hai sbattuto la testa. L’anno scorso” spiega mia madre, seria “stavi tornando da scuola, hai attraversato un incrocio e ti ha investito un’auto. Sei rimasto in coma per alcuni giorni, poi ti sei svegliato” i suoi occhi sono lucidi, il mio sorriso sempre meno convinto.
“Un incidente? Ma io non me lo ricordo” smetto di saltellare, cerco risposte nel viso di una, poi in quello dell’altra “è uno scherzo che non mi piace, piantatela!”
“Pensavo non ti avrei più potuto parlare” prosegue mia madre, sta per mettersi a piangere, sospira e trova la forza per andare avanti “ma quando corri, il flusso sanguigno è maggiore, al cervello arriva l’ossigeno necessario per attivare tutte le funzioni cerebrali” guarda l’altra in cerca di conferma “l’ho spiegato bene?”
“Sì, più o meno è così” conferma la ragazza “se ti fermi, se rallenta il battito del tuo cuore, dopo alcuni secondi cadi in uno stato in cui non parli, non ci senti, credo, e non ricordi. Ti lasci guidare docilmente ma... è come se tu dormissi, anzi, come se tu fossi sonnambulo, ecco.”
“Però cominciando a correre ti svegli” si sforza di sdrammatizzare mia madre “si fa molto prima se le scale te le fai da solo senza doverti trasportare di peso.”
Sonia cerca di sorridere a quella che vorrebbe essere una battuta.
“Cosa?” esclamo incredulo “Mi state dicendo che sono un semi-vegetale e la cosa fa ridere? E’ una bugia! Bello scherzo del cazzo, brave!”
“Ti hanno fatto degli esami mentre...” aggiunge Sonia esitando “mentre stavi dormendo. Stanno studiando quali medicine darti, forse dei dosaggi appositi per il tuo caso, ma che non siano pericolosi e...”
“Io non vi credo!” la interrompo “Basta!” passo da un viso all’altro “Sono fermo, no? E non succede niente. Siete crudeli a raccontarmi questa storia. Ci stavo quasi per credere, sapete?” i loro visi hanno un’espressione piena d’affetto, mi infastidisce “Sono sveglio, vedete? Sono... Io sono... cosa...” la figura di mia madre è sfocata, mi volto lentamente verso Sonia, che si avvicina, anche il suo viso è sfocato, sempre di più, di più, di più.

11.
“Cammina piano, piano, piano. Così, bravo. Ora più veloce”.
Luce. E’ il sole che entra da una finestra. E’ la finestra di camera mia, di fronte a me.
Poco più in basso c’è una pulsantiera e un piccolo monitor elettronico.
Sto correndo su un tapis roulant ai cui lunghi braccioli sono aggrappato con entrambe le mani. Sul dorso della sinistra c’è una mano femminile.
“Buongiorno!” mi volto. E’ Sonia.
“Ciao” rispondo disorientato, camera mia è sempre la stessa ma questo tapis roulant è nuovo. Mi chiedo quando l’abbiano portato. Ma soprattutto... quando ci sono salito?
“Come stai?” mi chiede Sonia.
“Mi sento stanco”
“Lo credo bene, ti sei appena svegliato” vedo alle sue spalle il mio letto, non ancora rifatto, dal quale devo essere appena uscito. Ma non lo ricordo. Mi ha aiutato lei?
“Vuoi tornare a dormire un altro po’?” mi chiede.
“No, ora che sei qui con me, non voglio più dormire” le rispondo serio. Lei sorride.
“Questo?” indico il mezzo su cui sto correndo.
“E’ da parte nostra. Così non sei costretto a uscire di casa quando fa brutto tempo.”
“Nostra?” chiedo.
“Ho partecipato anch’io, ovviamente” mia madre entra nella stanza dalla porta alla mia destra “anche se so avresti preferito fosse solo un regalo della tua bella” mi porge una caraffa sul cui fondo ci sono quattro dita di caffelatte. Lo bevo tramite una cannuccia, continuando a correre.
Ricordo la corsa di ieri.
Ricordo l’incontro con Carlin.
Ricordo di averlo seminato e di essere tornato a casa.
Ricordo la strana storia che mi hanno raccontato.
Mi sono fermato e poi... niente, fino ad ora.
L’incidente. Forse ricordo quando è successo, anzi, prima che succedesse. Mentre attraversavo una strada una macchina quasi mi stava per investire.
Mi è venuta addosso?
E la scuola?
Ora capisco.
Nell’ultimo mese ho solo vissuto correndo.
E Sonia era quasi sempre presente.
“Quindi... “ tento di chiedere ma le parole mi si strozzano in gola. Ci riprovo.
“Quindi sarò costretto a correre sempre?”
“Come ti dicevamo ieri” mi spiega mia madre apprensiva “stanno provando a fare delle medicine per tenere alto il battito cardiaco ma non sanno se e quando sarà possibile.“
Poi Sonia finalmente risponde senza mezzi termini, più determinata.
“Se ti fermassi perderesti conoscenza. Come ieri.”
“Capisco” sospiro.
“Mamma, lasciaci soli per favore.”
Si scambiano un’occhiata d’intesa. Obbedisce.
Io continuo a correre, guardo prima la ragazza, poi di fronte a me.
“Quindi” i miei occhi diventano lucidi “quindi non potremo, per esempio, andare al cinema. O in pizzeria. Mai” non mi volto verso di lei e non aspetto risposta, osservo qualcosa di inesistente al di là della finestra. La sua mano stringe la mia.
Poco a poco rallento la mia andatura, fino a camminare. Le lacrime scendono sulle mie guance. Piango. Prima in silenzio. Poi piango più forte, aggrappandomi con tutto il peso ad entrambi i braccioli, per non cadere in avanti.
Dieci minuti. Per dieci minuti non parlo, cammino a passo svogliato, un passo che per più di una volta sembra essere l’ultimo. Se mi fermassi il mondo si spegnerebbe, ma solo momentaneamente. Vorrei tanto tornare a dormire, smettere di pensare, per sempre.
La mia vita.
La mia vita.
La mia vita.
Sonia è lì, la sua mano sulla mia. Anche lei non dice niente.
Aspetta.
Mi porge un fazzoletto. Mi asciugo gli occhi, mi soffio il naso, metto il fazzoletto in tasca.
Penso e cammino.
Sospiro profondamente.
Guardo di fronte a me, il sole che entra dalla finestra. Sembra una bella giornata a vederla. Nel pomeriggio potrei uscire. Posso uscire. Mio padre non poteva, io sì.
Aumento il passo sul tapis roulant e ricomincio a correre.
Tolgo le mani dai braccioli. Raggiungo la mia andatura ideale.
Penso e corro.
I miei pensieri sono più chiari, limpidi.  
“Non sei costretta a rimanere con me” esordisco dopo il lungo silenzio.
“Nessuno mi costringe” risponde pronta, sorprendendomi.
Sonia ha già pianto in queste settimane. Tante volte. Ha pianto per me, per se stessa, per tutto quanto. E’ solo una ragazzina ma ha pensato tanto, preso decisioni difficili e preparato parole. Tutto da sola.
“Però” continua “se smetti di correre o ti lasci andare, non so se potrò restare con te. Corri per vivere, per te e per tua madre. E corri anche per me, se mi vuoi bene.”
Mi volto verso di lei. Sta dicendo davvero, è seria. Riporto lo sguardo di nuovo in avanti, fuori dalla finestra.
“Discorsoni importanti oggi” le dico.
“Scemo, è una cosa seria questa” mi sorride.
Io continuo a correre. Prendo la sua mano nella mia.
“Quindi stasera potremo vederci?”
“Sì” sorride “ora sì”.

12.
Il mio lettore mp3 ha deciso di suonare la mia preferita di Springsteen.

We gotta get out
while were young
`cause tramps like us,
baby, we were born to run

Penso alle parole della canzone:
“Dovevamo andarcene quando eravamo giovani, perché siamo vagabondi, piccola...”
Lo abbiamo fatto, no? E siamo andati lontano, tu ed io. Non è vero, Wendy?
Cerco nel pubblico il suo viso e lo trovo.
Sonia mi sorride e mi saluta. Al suo fianco mia madre, anche lei sorridente e orgogliosa.
Siamo in piazza della Signoria a Firenze e sta per cominciare l’ultramaratona, una maratona di cento chilometri che terminerà a Faenza. Adoro correre questo percorso.
Nella bolgia di persone con il numero sul petto, pronte a partire, sono l’unico che ha già cominciato a spendere energie, correndo sul posto. La mia corsa è già cominciata.
So di apparire strano agli altri ma ormai c’ho fatto l’abitudine.
Qui è sicuramente meno stravagante che, per esempio, al supermercato.
Tra i corridori in gara riconosco due facce, sono Duetti e Carlin, a pochi passi da me. E’ piccolo il mondo. Sono cresciuti anche loro in questi sette anni ma per certi versi non sono cambiati. Duetti mi nota, da’ una gomitata a Carlin, i due si mettono a ridere guardando “il matto che saltella sul posto da solo” ma non credo mi abbiano riconosciuto.

Negli ultimi anni ho lasciato crescere barba e capelli, è un look che mi fa sentire più libero di essere come sono. Ho dovuto definire delle priorità e quella di avere un aspetto ordinato da bravo ragazzo imborghesito non rientrava tra queste. E poi tutti dicono che ho una bella barba, a Sonia piace e mia madre dice che crescendo assomiglio sempre di più a mio padre da giovane.
“Speriamo non mi arrestino per sbaglio” le ho risposto una volta.
Non le è piaciuta molto la battuta ma prendere la vita così, non troppo seriamente, è l’unico modo con cui riesco ad affrontarla col sorriso. Se non ridi di certe cose, è finita.
La mia giornata è scandita da vincoli ben precisi che mi permettono di poter vivere in maniera tutto sommato normale, forse un po’ di corsa, se permettete il gioco di parole.
Mi sveglio su un tapis roulant dopo che qualcuno mi ha accompagnato dal letto al mezzo. Faccio colazione lì sopra, cercando di non rovesciare niente, cosa che non sempre riesce ma vado migliorando. Poi esco a correre. Quando sono in casa corro sul posto, viviamo al piano terra, non rischio di disturbare nessun vicino.
Ho intrapreso la carriera agonistica. Ho pensato che, se proprio dovevo essere costretto a correre, tanto valeva farlo diventare il mio lavoro. C’è chi passa otto ore in un buco d’ufficio e poi altre due ore in macchina, ogni giorno; tutto sommato la mia situazione non è peggiore della loro. Da un certo punto di vista è addirittura migliore la mia.
E ho avuto la possibilità di vedere il mondo. Negli ultimi due anni ho partecipato alle maratone più famose e alcuni sponsor hanno pagato bene.
Sonia è sempre rimasta al mio fianco. I suoi genitori sono delle brave persone, hanno detto che se continuerà a tenere alta la media scolastica potrà fare quello che vuole.
Si è sempre occupata degli aspetti burocratici ed economici, dei contratti con gli sponsor, delle iscrizioni, dei viaggi e delle visite mediche. Una piccola manager in carriera.

E ora sono qui, a Firenze, pronto per una nuova sfida.
Sonia è diventata una donna. La mia donna. E aspetta il nostro primo bambino. Alcuni amici molto disinibiti c’hanno chiesto come abbiamo fatto a... Che sfacciati! Mi è bastato rispondere loro che, a letto, il battito cardiaco rimane elevato, spesso e volentieri.
Ora saltello da un piede all’altro, quel tanto che basta per rimanere pronto per partire.
Un ragazzo, col numero 96 sul petto, si avvicina.
“Lei è Mattia Pascal, vero?
Io annuisco. Duetti e Carlin confabulano tra loro, senza staccarmi gli occhi di dosso.
“Lei è il vincitore di tutte le più grandi maratone mondiali. Wow! E’ un onore” mi porge la mano. Io contraccambio la stretta e gli dico un paio di frasi gentili e di incoraggiamento.
Duetti e Carlin hanno smesso di sorridere. Penso che potremmo scambiare due chiacchiere, prima di partire. Perché no? Siamo adulti e il passato è passato.
Ma i due si allontanano mescolandosi agli altri corridori prima che io possa avvicinarli.
Forse pensano che vincerò questa gara.
E hanno ragione.
Perché non posso fare altro.
Perché vivo solo per questo.
Perché io sono nato per correre.

giovedì 21 febbraio 2013

"Born to Run" cap 7,8,9 di 12

7.
C’è da dire tanto altro.
Mi faccio coraggio e decido di non lasciar perdere.
“E’ strana questa situazione.”
“Quale?” chiede Sonia senza troppa convinzione.
“Che ci vediamo solo il pomeriggio per correre un po’ assieme.”
Non replica, corre guardando davanti a sè. Io allora riprendo.
“Non ho doppi fini, non voglio fare... quello. Cioè, sì, voglio farlo ma è presto.”
“Ma tu sei proprio scemo!” arrossiamo entrambi.
Sorridiamo ma non riusciamo più a dir nulla, siamo consapevoli che succederà, prima o poi, non abbiamo fretta ma sentiamo che il desiderio di stare assieme cresce, giorno dopo giorno. Il desiderio di dare e avere di più.
Mi accorgo in quell’istante di una figura, di fronte a me, non ho quasi il tempo di capire.
“Ritardato!” urla Carlin che sta per investirmi con una spallata in pieno petto. Dal ghigno stampato sul viso si può intuire quanto ciò lo renderà felice.
Mi sposto rapido sulla sinistra torcendo il busto, come avrebbe fatto un toreador per scansare un toro. Carlin passa tra me e Sonia, sfiorandomi. Una folla immaginaria di spagnoli grida “Olé!”. Il toro quasi cade a terra mentre noi continuiamo a correre nella direzione opposta alla sua.
“Bastardo!” urlo.
Carlin riprende l’equilibrio, si volta e comincia a inseguirci.
“Vai giù di là, ci vediamo a casa” dico a Sonia indicandole la prima traversa che stiamo per incontrare sulla destra.
“Non posso lasciarti con ...”
“Sei tra i piedi, va’ ti ho detto!”
Non c’è tempo per discutere, la prendo per un braccio aumentando la nostra andatura e arrivati al bivio la costringo a proseguire sospingendola verso destra, mentre io tiro dritto. Carlin è alle nostre spalle, a una decina di metri, e come speravo tira dritto pure lui. E’ veloce, ha un anno in più e mi supera in statura e stazza. Ed è padrone di una cattiveria che mi è estranea: è il desiderio di far del male agli altri senza motivo, non lo comprendo e proprio per questo mi spaventa. Non è il momento di pensarci. Aumento la velocità e riesco a mantenere il distacco di dieci metri, allontanandomi dalla traversa.
“Idiota! Tra poco t’ammazzo!” grida ridendo ferocemente, sei metri dietro di me.
Svolto per piazza Garibaldi, poi giù, di fianco alla chiesa di San Martino.
I sei metri diventano quattro, poi diventano tre, due.
Lo sento ridere, a intermittenza, ha il fiato corto, ormai è su di me.
Abbiamo percorso strada a sufficienza, Sonia è lontana.
Basta giocare a guardie e ladri, comincio a correre davvero.

8.
Mia madre è sulla porta di casa, Sonia è con lei.
Arrivato a pochi metri da loro rallento e mi fermo.
“Oggi non hai fatto un gran tempo, mi stavo preoccupando...” dice mia madre mostrandomi una sveglia da comodino “cos’è successo?”
Non sa niente di Carlin. Meglio così.
“Niente, mà, ho solo allungato il percorso.”
“Non fermarti Pascal! Corri sul posto!” mi ordina la donna in tono semiserio. Sonia comincia a correre sul posto, mi sorride facendomi cenno di assecondarla.
Comincio a saltellare anch’io.
“E’ necessario un po’ di defaticamento” scandisce ogni sillaba di quest’ultima parola “dopo una lunga corsa, prima di un bagno caldo. Ora vado a prepararti la vasca. Poi subito su di corsa e... c’è una sorpresa in camera tua” così dicendo si avvia verso l’entrata.
“Signora!” chiama Sonia.
“Sì, cara?” mia madre si volta sulla soglia di casa.
Sonia smette di saltellare.
“Glielo deve dire. E’ venuto il momento.”
La donna trasale, la sua espressione si fa cupa. Anch’io mi fermo. Non capisco.
“Continua a correre, Pascal!” ordina mia madre.
“Mà, stai esagerando con questa storia della corsa, non pensi che...” ma Sonia mi interrompe e mi parla con dolcezza.
“Corri Mattia, per favore, è importante” è un tono, questo della sua voce, con il quale potrebbe chiedermi qualunque cosa. Mi commuove. E’ un tono che non è falso, né tenero, né autoritario, non è capriccioso, né allegro o triste. Forse non ci sono parole per descriverlo. Ma io quel tono lo sento solo come una domanda: “Mi ami?”
E la risposta è scontata. Ricomincio a correre sul posto e assisto al dialogo.
“Quanto pensa debba andare avanti questa cosa?” non ho mai visto Sonia così seria.
Mia madre esita. Guarda lei, guarda me, poi di nuovo lei.
“Pensi sia una buona idea dirglielo? Non risolverai il problema” risponde apprensiva.
Di quale problema parlano? Cosa dovrebbero dirmi?
Sonia continua “Se c’è un modo perché possa funzionare voglio cercare di trovarlo, assieme a lui. La prego, forse è possibile.”
Mi fermo “Volete spiegarmi? Se state parlando di me vorrei avere voce in capitolo.”
“Continua a correre!” imperative, sia Sonia che mia madre, a una sola voce.
Io riprendo a saltellare sul posto. Loro sorridono, guardandosi.
Mia madre sospira, ha capito che è la cosa giusta da fare, comincia a raccontare.
“Circa un mese fa, durante l’ora di educazione fisica...”

9.
Ai bordi del campo di calcetto, interno alla pista da corsa, io e Sonia avevamo tutti gli occhi della classe puntati addosso.
“Perché lo hai fatto?” ho chiesto a Sonia. La delusione stava divenendo rabbia.
“Prof” ha chiamato Sonia ancora una volta. Che cosa voleva mostrarle? Avevo qualcosa che non andava? Mi toccai il naso, per controllare se perdessi sangue. No, tutto ok.
“Sei come tutti gli altri” le ho detto. Ma più che un’affermazione era una domanda di cui non volevo sentire risposta “E ora? Vuoi un premio?”
La professoressa mi guardava in maniera strana, ha fatto qualche passo verso di me.
“Pascal” sorrideva “è meraviglioso. Che hai fatto?”
Ero arrabbiato, mi sentivo tradito e in soggezione sotto tutti gli occhi curiosi dei compagni.
“Secondo lei che ho fatto? Un torneo di briscola? Stavo correndo invece di stare ad ascoltare la sua lezione pallosa con contorno di imbecilli” ho indicato Duetti e Carlin.
“Pascal! Ma come ti permetti?!” ma la voce dell’insegnante non era quella severa che avevo sentito tante volte riprendere altri, era affettuosa, divertita. A rigor di logica, la mia uscita non avrebbe dovuto essere divertente, almeno per lei. Ma per i miei compagni lo era: esplosero in una risata incontrollabile, rumorosa, caricata all’inverosimile. Alcuni ridendo si sdraiarono su un fianco, altri si abbracciarono, era l’apoteosi della gioia. Solo Duetti e Carlin non sembravano aver apprezzato la battuta. Effettivamente non era poi così divertente. Semplice sarcasmo.
La professoressa si era avvicinata, “ora ne vedremo delle belle” avevo pensato. E avevo già in serbo un paio di battute per metterla in ridicolo senza risultare offensivo. Ero mentalmente pronto al confronto “colpirò prima le sue mancanze di insegnante, partendo dal fatto che solo ora si è accorta che non ero nel gruppo e stavo... solo ora si è accorta che stavo... cos’era che dovevo dirle? Lei prof non si è nemmeno accorta... accorta di ...”
Sonia era di fianco a me, mi guardava.
La professoressa era di fronte a me.
“Allora Pascal, che cosa è ...” ma si interruppe subito.
Io non parlavo, fissavo di fronte a me.
“Mattia?” aveva chiamato Sonia, smettendo di sorridere.
Aveva poi appoggiato una mano sulla mia spalla “Mattia... mi senti?” e cominciando a scuotermi leggermente mi supplicava “No, ti prego...”
Anche il sorriso dell’insegnante si era spento e le risate della classe si erano placate.
Sonia mi abbracciò e cominciò a piangere “Mattia...Mattia...” ripeteva singhiozzando.
Io non replicavo. Rimanevo immobile, con un’espressione assente sul viso.

martedì 19 febbraio 2013

"Born to Run" cap 4,5,6 di 12

4.
Mio padre morì in prigione gridando la propria innocenza.
Lo immagino tra quattro mura, senza poter uscire e camminare libero.
Senza poter correre.
Poco tempo dopo fu trovato un altro uomo, con la refurtiva. Dissero che assomigliava molto a mio padre. A me non sembrava. Il ladro aveva occhi di un altro colore, una fronte meno spaziosa, un naso più grande, guance grassocce anzichè scarne, però sì, aveva anche lui la barba. Due gocce d’acqua.
Solo mia madre credette alla sua innocenza: “La verità sul suo viso era evidente” ripeteva “chiunque gli avesse voluto bene avrebbe potuto vederla”. A me questa frase suonava come un rimprovero, anche se lei non sapeva che avevo dubitato di lui.
Non potrò più dirgli “scusa papà, non ti ho creduto, ho pensato che gli altri avessero ragione. Sei un bravo papà, perdonami.”  
Uscita la notizia dell’innocenza di mio padre la gente cominciò a venire a casa nostra: una lunga processione di persone che venivano a ripulirsi la coscienza. Ma dopo aver infamato e deriso qualcuno non esistono scuse che possano riparare al danno. Avevano rubato qualcosa che, anche se lui fosse rimasto in vita, non poteva più essere restituita.
“Sai, ci spiace tanto” aveva detto una grassa signora a mia madre “ma le prove sembravano così... Proprio nessuno avrebbe...” non rimasi a sentire il resto. Mi misi le scarpe da ginnastica, scesi le scale di soppiatto, attraversai la piccola lavanderia, tra i panni stesi ad asciugare, e uscì dal retro. Cominciai a correre, piangendo, senza voltarmi, fino a quando le gambe e i piedi non mi fecero male, fino a quando non ebbi più fiato e i polmoni non cominciarono a bruciare. Tornai ore dopo. Mia madre non mi aveva chiesto dove fossi stato e non me lo chiese mai, anche le volte successive in cui l’episodio si era ripetuto. Preferiva io non sentissi le poche parole che era costretta a dare loro in risposta, con un sorriso di circostanza. Se in quel piccolo paese non si fosse cercato di andare d'accordo con tutti, la vita sarebbe potuta divenire un inferno ancora peggiore di quello che già stavamo vivendo. La capivo. Lei non poteva correre via come facevo io.
Senza dir nulla, perché nulla c’era da dire, accettavamo la situazione e reagivamo come ognuno di noi era in grado di fare. Così passarono settimane. Piangendo. Correndo.

Ora, nella pista circolare della scuola, mi tengo a distanza dai compagni di classe, continuando a correre anzichè unirmi a loro. Mi sento come un satellite che non può avvicinarsi al pianeta attorno al quale ruota perché, se è vero che una forza di gravitazione lo attrae, e quella forza per me era mia madre, un’altra forza lo costringe verso la fuga dalla propria orbita. Correre mi permetterà un giorno di fuggire, da tutto e da tutti.

5.
La nostra insegnante di educazione fisica è solita impartire gli ordini con severità ma non ci fa mancare un sorriso, di tanto in tanto. E’ una dei pochi abitanti del paese che riesco a sopportare. Dopo la morte di mio padre ha cominciato a riservarmi una gentilezza speciale che a volte mi fa sentire diverso. Ma non mi dispiace, ne ho bisogno. Ho bisogno di sapere che nel mondo non ci sono solo imbecilli.
Sento il fischietto squillare e la sua voce urlare, mi volto verso il centro della pista ma non è me che vuole riprendere, sta sgridando Duetti e Carlin. I due ripetenti mi indicano, lei si volta e il suo sguardo incontra il mio.
“Pascal! Ma cosa stai facendo?” il suo tono è molto stupito ma non severo.
“Prof” interviene Sonia facendo un passo fuori dal gruppo “posso andare a parlargli io?”
Sonia comincia a correre verso di me, la donna torna alla lezione.
Io continuo a correre nella pista, in senso antiorario. Sonia mi raggiunge, io mi sposto verso l’esterno, nella seconda corsia, e rallento per lasciare che si affianchi alla mia sinistra, che prenda la mia andatura.
“Mi manchi” mi dice subito.
“Sono qua” rispondo.
“Cosa?” ride.
“Come posso mancarti se sono qua?” le dico da vero duro o perfetto idiota.
Lei sorride e i suoi occhi, due perle nere di bambina che sta diventando donna, si illuminano. Non replica, forse non ha capito il gioco di parole.
“Ci vediamo oggi pomeriggio, dopo pranzo?” le chiedo intraprendente. Non stiamo assieme ma ci siamo baciati, una sola volta. Era stato il mio primo bacio. Era da un po’ che non ci “frequentavamo” più ma non ricordavo il perché.
“E’... è incredibile!” Sonia si volta verso il centro della pista e comincia a urlare come una pazza “Prof! Venite tutti!” mi prende per un braccio, quasi mi fa cadere e mi trascina verso il campetto centrale. “Prof!”
Io mi libero dalla presa e mi fermo, non voglio essere trascinato su un palco per essere deriso dalla classe e mi sembra che Sonia stia per fare proprio questo.
Si ferma anche lei ma sorride ancora, guarda me, poi la prof e i compagni di classe che richiamati dai suoi urli si sono voltati.
“Perché lo hai fatto?” le chiedo deluso.

6.
Sono passate quattro settimane da quell’episodio.
Oggi mi è venuto in mente ma non riesco a ricordare come si è concluso. Che ha la mia memoria che non va? Sento che mancano dei “pezzi”.  
Eppure quando corro riesco a pensare bene, come ora, mi sento lucido e la mia mente è sgombra. Sono quattro ore che vado avanti e indietro lungo la provinciale che collega il mio paese a quello vicino. Anche oggi migliorerò il mio tempo.
Devo ammettere che vivere in un piccolo paese ha i suoi lati positivi, se ami la natura: la strada che ho percorso costeggia il fiume e sulla superficie dell’acqua, tra le due sponde erbose, oggi ho visto volare due aironi.
Insomma, non è poi così male, non ci sono solo nebbia e zanzare come alcuni pensano.
All’entrata del paese, in lontananza, riconosco la figura di Sonia, in maglietta e pantaloncini, i capelli legati in una coda di cavallo. Come ogni pomeriggio mi sta aspettando per correre assieme l’ultimo tratto. Non posso fare a meno di notare che il suo corpo sta cambiando. Sta divenendo... non so come dire, più bello. Comincia a correre prima che io l’abbia raggiunta. E’ veloce ma la supero facilmente e devo rallentare per non lasciarla indietro. La preferisco accanto a me.
“Ciao Road Runner” mi sorride.
“Ciao Wendy” le rispondo “anche oggi hai tagliato il percorso eh?”
“Stupido, solo perché non posso competere, non ti montare la testa!” si avvicina, mi prende per un braccio con entrambe le mani, mi attira a sè, mi bacia mentre corriamo. Un bacio breve ma intenso. “Mi piace questo ‘Wendy’, mi dici ancora da dove salta fuori?”
“Viene da una canzone di Springsteen che piaceva a mio padre.”
“Che hai detto si chiama... ?”
“Born to Run”
“Born to Run, nato per correre, direi che è azzeccata per te.”
“Nati per correre” sottolineo la ‘i’ del plurale “l’autore parla di se stesso e della donna amata, Wendy per l’appunto.”
“La donna amata” esita Sonia cercando le parole “a me suona come una dichiarazione.”
“E’ la canzone che fa così!” e per togliermi dall’imbarazzo comincio a canticchiarne le parole, intervallandole col respiro della corsa, in un inglese non privo di imperfezioni:

Wendy let me in
I wanna be your friend,
I want to guard
your dreams and visions

continuo il resto della strofa canticchiando il motivo della canzone, senza parole.
“Che vorrebbe dire?”
“Vorrebbe dire che devi studiare di più l’inglese!”
“E’ la tua pronuncia ad essere orribile!”
Ridiamo, abbiamo superato la fabbrica abbandonata e ormai siamo dentro il paese.
“Dovrebbe voler dire qualcosa del tipo: Wendy, lasciami entrare, voglio essere tuo amico e voglio proteggere i tuoi sogni e le tue visioni”.
“Amico” ripete delusa.
“Ti assicuro che non sono amici. E poi dice ‘lasciami entrare’. Secondo te, dove?”
“Scemo!” mi da’ un pugno sul braccio ma ne ridiamo entrambi.
“Stavo pensando che” esito cercando le parole “che potresti venire da me, stasera.”
“Io...” vedo un suo sorriso accendersi ma è un istante, si spegne subito dopo.
“Non so. Mi piacerebbe molto ma... i miei non mi fanno uscire la sera e... forse non è ancora il momento.”
“Va bene” le dico per chiudere l’argomento, sento che sta diventando imbarazzante per entrambi. Mi ha detto di no. Che altro c’è da dire?

domenica 17 febbraio 2013

"Born to Run" cap 1,2,3 di 12

1.  
Corro.
La pista ha quattro corsie ma non è molto grande, un giro completo è lungo all’incirca centocinquanta metri. Corro da più di un’ora e non sono per niente stanco. Mi sento vivo.
All’esterno della pista c’è molto verde, alcuni alberi, dei cespugli, l’odore di erba appena tagliata. Man mano che il panorama ruota davanti ai miei occhi, compare il grande edificio scolastico di tre piani. Le inferiate grigie alle finestre lo farebbero assomigliare a una prigione se non fosse per quel giallo sbiadito che lo ricopre.
All’interno della pista c’è un campo da calcetto che all’occorrenza può divenire un campo da pallacanestro. I miei compagni di classe sono tutti lì. Dopo la corsa hanno fatto i rituali esercizi e ora stanno per fare una partita. Solo io sono rimasto in pista. La professoressa di educazione fisica è una cinquantenne con i capelli neri, lunghi, il fisico asciutto, gli occhiali spessi e un immancabile fischietto al collo. Sta insegnando al gruppo le regole del gioco. Non ha notato la mia assenza benchè stia girando attorno a loro da un bel pezzo.
Continuo a correre. Mi sento bene, i pensieri sono chiari, limpidi.  
Eppure non riesco a ricordare che ho fatto stamattina.
Ho addosso dei pantaloncini blu e una vecchia maglietta nera. La maglietta è mia, lo so, ricordo quando l’ho comprata e ricordo di averla indossata un paio di volte. Avevo poi deciso che il disegno dell’elefante sul petto era infantile e non l’avevo più voluta mettere.
Quando. Quando ho deciso di portarla per l’ora di educazione fisica?
Niente. Non lo ricordo. E’ strano.
Di tanto in tanto guardo i miei compagni di classe, al centro della pista. Il più alto di loro, Duetti, mi ha visto, si è messo a ridere e ha dato una lieve gomitata al più grosso, Carlin, per fargli notare “quello che sta correndo da solo”.
Ora sono in due a sghignazzare.
Detesto i miei compagni di classe.
E detesto il mio piccolo paese e la gente che vi abita.
Da dove è nato tutto questo odio? Riesco a ricordarlo?
Oh sì. Questo lo ricordo bene.

2.
Mio padre, da giovane, vinse qualche maratona. Conservava tre coppe e alcune medaglie in salotto, in bella vista. Ne andava molto fiero e non si stancava mai di raccontare aneddoti sulle competizioni a cui aveva partecipato. Era sempre rimasta una sua grande passione e ancora si teneva in forma percorrendo qualche chilometro nel tardo pomeriggio, dopo lavoro.
La sua canzone preferita era “Born to Run”, nato per correre, di Bruce Springsteen; la canticchiava spesso, anche da solo, tanto che a me e mia madre era venuta a noia e lo prendevamo in giro.
Una sera mio padre uscì per andare a correre. Indossava una felpa scura, col cappuccio tirato sul capo. Proprio a causa di quel cappuccio e della barba che si lasciava crescere, risultò sospetto e i carabinieri lo avevano fermato. Aveva provato a spiegare che in inverno, con la nebbia, avere il cappuccio sulla testa era una cosa normale e che portare la barba non violava nessuna norma.
Non servì.
Una giovane coppia, i Leopoldi, era venuta a vivere nel nostro paesello. In controtendenza a tutti quelli che scappavano verso le grandi città. Avevano comprato una delle nuove villette fabbricate nella zona nuova. "Qui metteremo radici" avevano detto.
Fino a quella sera quando avvenne il furto. Tremila euro in contanti più gioelli.
Al giovane Leopoldi avevano spaccato il naso. La moglie era in stato di shock: l’avevano minacciata di violenza e, anche se abusi non ne ce n’erano stati, aveva urlato tanto da perdere la voce.
Un’arancia meccanica nella bassa ferrarese.
E mio padre sembrava scappar via proprio da quella casa.
Non aveva documenti con sé, gli permisero di chiamarci per portarglieli in caserma. Andai anch’io. Una volta arrivati vidi il timore nei suoi occhi ma lui ci rassicurò: “E’ un errore, non vi preoccupate, tornate a casa, vi raggiungo più tardi.”
Ma non tornò.
La giovane coppia lo aveva identificato come colpevole dell’aggressione. Giustizia doveva essere fatta e così finì in prigione dopo un processo che non permise altre soluzioni. La televisione parlava sempre di processi caduti in prescrizione. Per quel processo, come per quelli della povera gente, tutto si svolse senza ritardi e rinvii.
La notizia si sparse velocemente per il paese. Nessuno mosse un dito per difenderlo o per dare una parola di conforto a mia madre. Nessuno. Mio padre era sempre stato cordiale con tutti e a tutti, una volta o l'altra, aveva teso la mano. Nessuno lo difese e le uniche parole che sentii furono di scherno, nei suoi confronti e nei miei.

Compio un altro giro della pista. Sento che potrei continuare per giorni. Aumento un po’ l’andatura, anche perché ricordare quei momenti fa nascere in me una rabbia che solo così, spendendola fino all’esaurimento delle energie, posso sopportare.
La professoressa non si è ancora accorta di me.
Tanto meglio, preferisco correre e stare lontano dai compagni.
Se ripenso ai giorni seguenti l’arresto di mio padre...

3.
“Figlio di un ladro! Sei il figlio di un ladro!” urlò Carlin durante la ricreazione. Alle sue parole avevano fatto eco quelle di altri compagni.
“Violazione di domicilio e furto con scasso!” continuò Duetti “Ladro lui! Ladro tu!”
“Furto e aggressione! Dovrebbero impiccarlo!” concluse Carlin “ci vuole la pena di morte per quelli come lui!” e mi spinse facendomi cadere per terra. Tutti risero.
Sonia era distante, con alcune compagne di classe, ma aveva assistito alla scena.
Anche le sue amiche avevano riso. Lei no.
Duetti e Carlin erano i due ripetenti della classe. Ripetenti perché troppo stupidi, forse, per superare la terza media al primo colpo. Ma io penso non studiassero perché convinti che una volta adulti avrebbero ottenuto tutto quello che volevano a suon di pugni. Come allora.
Ad ogni modo, quelle parole mi rimasero impresse. I ragazzini della nostra età non leggono i quotidiani e non hanno un vocabolario così ampio. Al limite ripetono a pappagallo frasi sentite alla televisione. O, più frequentemente, dai genitori.
Rimasi in silenzio, al mio posto, fino alla fine delle lezioni.
“Ladro!” ripeteva la mia testa all’infinito “Ladro lui! Ladro tu!”
Dopo il suono dell’ultima campanella, aspettai che tutti se ne andassero. Per quel giorno non avevo più voglia di confrontarmi, con nessuno.
Una volta uscito andai sconsolato verso il retro dell’edificio, dove lasciavamo le biciclette. Girato l’angolo mi arrestai. La mia bici era per terra, una ruota girava a vuoto e la catena dondolava fuori dai dischi dentati.
Poggiai lo zaino a lato, vicino al muro giallo della scuola, sollevai la bici e la capovolsi sottosopra, non senza difficoltà, per rimettere a posto la catena.
Ero rimasto in ginocchio per alcuni minuti, sporcandomi di grasso scuro le mani ma alla fine ce l’avevo fatta. Poi avevo scoperto che entrambe le gomme erano a terra.
Non riuscivo a contenere le lacrime, per colpa di quei ragazzini e della loro crudeltà.
E per colpa di mio padre che, sì, forse aveva veramente rubato, non pensando a me.
Era tutta colpa sua.
“Mattia, tutto bene?” mi chiese Sonia, comparendo dall’angolo alle mie spalle.
“Secondo te?” mi alzai, rosso in viso per essere stato colto in un momento di debolezza, e scalciai la bici, facendola cadere al suolo con violenza. Poi la ripresi, l’afferrai per manubrio e sella e dopo qualche passo veloce la lanciai con forza verso gli alberi.
La bicicletta percorse pochi metri, da sola, in equilibrio, senza conducente.
Poi cadde malamente, con fracasso.
Presi lo zaino e me ne andai via correndo.
Sonia era rimasta pietrificata, sia dal gesto che dalla cattiveria con cui le avevo risposto.
Io decisi che da quel giorno sarei andato a scuola a piedi, anche se distante.
Un problema di meno. E poi io amo correre.

Se adesso sono in questa pista, isolato dagli altri, è anche per questo. Mi fa sentire libero di essere come sono, di andare dove voglio, senza bisogno di niente e di nessuno.

domenica 3 febbraio 2013

Red Apple (parte 2)


“Signor Governatore!” proferì una voce entusiasta al di là della porta.
“Sono occupato ora” rispose.
“E’ prioritario, notizie dal pianeta centrale!”
“Entri allora” sbuffò il governatore.
Un uomo di statura alta, con l’uniforme dell’esercito del pianeta Mila, fece il suo ingresso nella suite reale. Aveva in mano un piccolo cilindro blu scuro metallizzato, del diametro di un centimetro. L’uomo si bloccò, pochi passa dall’entrata, e abbassò lo sguardo.
“Mi scusi, non sapevo, non intendevo...”
Il governatore, un uomo di settant’anni, con i capelli artificiali tinti di scuro, si trovava nudo su un tappeto antico, assieme a una giovane donna, anche lei nuda, con cui si stava dando da fare. Lei gattoni, lui dietro. Ansimante, non fermò il movimento del bacino nemmeno dopo l’entrata dell’uomo.
“Con chi ho il piacere...” l’uomo in uniforme si rivolse alla giovane donna che non rispose e lo guardò priva di pudore, senza interesse nè emozioni.
“E’ uno dei cloni, la pianti!” lo interruppe bruscamente il governatore “Capitano Alfan, mi dia questa notizia talmente importante da non poter aspettare!” e così dicendo diede uno schiaffo sulla natica della donna, che gemette.
“Signor sì!” Alfan sollevò il piccolo cilindro e lo attivò premendo un pulsante. Dall’estremità arrotondata uscì un ologramma di una donna, piacente e ben vestita, seduta a una superficie magnetica sospesa a mezz’aria. Alle spalle della donna, sulla sinistra, il simbolo del canale mediatico Coca-Cola 6. Davanti a lei, sulla destra, alcune proiezioni statistiche.
“La multiplanetaria del magnifico Governatore B“ cominciò la giornalista con voce chiara e atona ”ha guadagnato altri due punti percentuale, raggiungendo così il gruppo popolare degli attivisti del pianeta Verde. L’esito delle prossime elezioni galattiche non sembra quindi così scontato come sembrava. L’acquisto del giovane Batolet, promessa emergente del campionato di laser-ball, ha acceso l’animo degli abitanti del pianeta Mila, che avrebbero così deciso di cambiare il proprio voto. Polemiche da parte dei soliti rappresentanti del pianeta centrale. Insistono nel dichiarare non legale il presunto conflitto d’interessi che si verrebbe a creare possedendo una squadra di laser-ball, o dei canali mediatici, nelle elezioni galattiche. Non hanno proprio niente da fare, braccia rubate alle miniere del pianeta Iron-Man. Voglio esprimere tutto il mio sostegno per il governatore B e sottolineare come la sua amministrazione mi abbia sempre lasciato libera di svolgere il mio lavoro, in assoluta libertà. Veniamo ora alla rubrica dei nostri amici animali, oggi vi consiglieremo il modo migliore per massaggiare le zampine dei vostri padroncini canini.”
Alfan spense il cilindro “Abbiamo rimontato di due punti, possiamo vincere!”
Il governatore, che nel frattempo non aveva mai smesso di muovere il bacino avanti e indietro contro il posteriore della giovane, gli sorrise:
“Perchè? Aveva dei dubbi?”
“No, signore”
“Dia l’ordine a quella giornalista di aumentare un po’ la scollatura, il pubblico vuole quello! E dalla prossima settimana, dia la seguente notizia: se il governatore vincerà le prossime elezioni, toglierà l’IPA.”
“Ma signore” obiettò Alfan “non è sostenibile eliminare dall’intera galassia l’imposta sulla prima astronave.”
“Alfan, rimarrai sempre capitano se non capisci come va l’universo. Credi che, se il sistema collasserà, saremo noi a pagare? L’importante è rimanere ai vertici del potere, Alfan, l’importante è vincere, con ogni mezzo necessario” fece poi gesto all’uomo di andarsene, schiaffeggiò la natica della giovane, che gemette. L’anziano politico rise.
“Vincere... e vinceremo!”