sabato 21 settembre 2013

In Coda


Anastasia era seduta in macchina, da sola, ferma in coda da mezz'ora. Aveva passato i primi dieci minuti a truccarsi, ma poi l'attesa si era prolungata in maniera esasperante.
- Dai cazzo, sono le otto, sono in ritardo fottuto! -
Colpì  il clacson una volta con il palmo aperto e poi ancora, come se pronunciando quelle parole ne avesse preso maggior consapevolezza, alimentando la sua stessa ira.
- Porca puttana! Ma chi è quel coglione che ha tamponato a quest’ora del mattino?!? Ma stattene a letto invece di rovinare la giornata agli altri, eccheccazzo! -
Al suono del suo clacson se ne aggiunsero altri, come un’eco si propagò lungo le due file d’auto.
Nel furgone alla destra di Anastasia era seduto un uomo, tarchiato, con la sigaretta accesa in bocca e il braccio fuori dal finestrino, anch’egli era evidentemente alterato per quella coda che non sembrava avere fine. L’autoradio dell'uomo trasmetteva il messaggio di un noto personaggio politico, la cui voce impostata e melliflua cercava di convincere gli ascoltatori che i milioni di euro frodati allo stato e le accuse comprovate di corruzione erano falsità dei magistrati.
- Ma vaffanculo! -
L’uomo colpì la radio a pugno chiuso, l’afferrò con le mani, da entrambi i lati, la tirò verso di sé con diversi strattoni fino ad estrarla, rompendo il supporto di plastica e spezzando i collegamenti elettrici posteriori, e la scaraventò fuori.
Anastasia vide l’oggetto uscire dal finestrino del furgone, come al rallentatore, ne tracciò la traiettoria immaginaria, non v'era alcun dubbio che sarebbe finito sul suo parabrezza! Proprio in quel momento uno scouter stava passando tra le vetture a velocità sostenuta, il conducente prese l’autoradio in pieno viso, sbandò e cadde sulla fiancata di una macchina.
La gente cominciò a uscire dalle auto ma, invece di aiutare il poveretto, cominciò ad aggredirlo.
- Pezzo di merda, guarda che hai fatto! -
- Ma guarda sto deficiente - disse una signora - sicuramente un immigrato! -
- Drogato! - sbottò un vecchio.
L’uomo tarchiato, per non essere individuato come causa del problema, si era subito unito agli altri uscendo dal veicolo; in piedi, vicino allo sportello aperto, cominciò pure lui a gridare.
- Eccone un altro! Ma cos’è oggi, la giornata degli imbecilli? -
Anastasia guardò l’uomo, che ricambiò lo sguardo con un sorriso di sfida.
- Cazzo hai da guardare? -
La donna non reagì. Guardò il ragazzo poco più avanti alzarsi da terra, senza l’aiuto di nessuno; solo l’autista del mezzo danneggiato gli era vicino, per gridargli la propria frustrazione.
Anastasia si calmò, affondò nel sedile, si limitò a guardare davanti a sé un punto del cielo in cui non v'era nulla. Solo il cielo grigio di un autunno alle porte.
-  Mondo di merda. -

sabato 14 settembre 2013

L'ubriacone di via Dè Coltelli


Nel centro di Bologna, all’angolo tra via dei Coltelli e via Orfeo, c’è il bar di Mike e Max.
Io abito poco distante. Il brusio proveniente dal locale, in prevalenza di studenti universitari, è un costante sottofondo a cui mi sono abituato nelle serate estive, un sottofondo che ho sempre gradito per la sua vivacità. Io stesso mi sono ritrovato in mezzo alla gioiosa spensieratezza del posto, diventando parte di quel complesso miscuglio di parole sovrapposte, sempre uguale ma sempre diverso. Una macchina macina vite in perenne funzionamento, un luogo dove amori iniziano e finiscono, dove le risate e i pianti si alternano nel mio dormiveglia.
Hic!
Tra gli schiamazzi serali spesso si erge una voce inconfondibile: è l’ubriacone di Mike e Max.
E’ un attempato signore con una grossa pancia gonfia, vestito di abiti vecchi e logori. Ha pochi capelli. Zoppica. Sul viso tondeggiante, al posto degli occhi, sono piazzate due fessure da cui tutto vede e tutti osserva. Questa sua attenzione non è immotivata. Ha creato un sistema per poter bere a scrocco: individua i bicchieri vuoti lasciati sui tavolini e li porta al banco dove, di tanto in tanto, riceve in cambio un calice con due dita di vino.
E’ una forma di mutualismo equiparabile a quella che si viene a creare tra il coccodrillo del Nilo e il piviere egiziano, un piccolo uccello che pulisce i denti del rettile mangiando avanzi e parassiti, mentre questo rimane con le fauci spalancate. Entrambi ne traggono beneficio. Che sia vera, questa del coccodrillo, non posso testimoniarlo; è invece reale il risultato di anni di convivenza tra due pilastri fondamentali della nostra società: il barista e il bevitore.
Per questo motivo l’ubriacone è sempre guardingo: con un occhio osserva un paio di avventori che stanno parlando di donne, si intromette nella conversazione e partecipa allegramente, mentre con l’altro non perde di vista un bicchiere ormai prossimo alla fine.
« Mi ero addormentato su una panchina, qua all’entrata dei giardini Margherita, quando... scusatemi » interrompe l’aneddoto e prende il bicchiere vuoto, si allontana, lo porta al banco e torna sorridente con un bicchiere di vino, riprendendo il discorso come se mai l’avesse abbandonato « quando apro gli occhi e vedo una donna con il più bel... »
Hic!
Tutti i bar degni di tale nome, da via del Pratello a via Zamboni, hanno un loro personaggio storico e questo è senz’altro uno dei più grotteschi e caratteristici dell’intera città.
Vederlo è tranquillizzante, l’atmosfera è più calda e festaiola; certo, la sua presenza è spesso ingombrante e il suo alito spaventoso, ma è la controparte che tutti, tacitamente, sanno deve essere accettata per poter stare nel quadretto e attingere alla saggezza popolare che non manca mai di dispensare a chi vuole starlo a sentire.
« Bevo dunque sono. » Come puoi non amare una persona così? La sua voce è sgraziata, biascica come gli ubriachi non possono impedirsi di fare, però non perde mai né il filo dei pensieri né la lucidità per esprimerli.
« Bere è un piacere. Tu non sai cosa significa bere » sono io, questa volta, il malcapitato di turno. Sorrido mio malgrado.
« Tu trovi divertente alcolizzarsi con gli amici, bevendo spritz, facendo “l’aperitivo”, ma in realtà sei un cazzone! » Applauso degli amici vicini che esplodono in un risata collettiva.
« Il motivo per il quale Dio ti farà finire nel girone dei cazzoni, è che... Non, Sai, Bere » sorrido un po’ meno ma so che, prima o poi, tocca a tutti passare per il giudizio del sommo. D’altro canto, il sommo, sa anche quando fermarsi, quando esagerare, quanto scherzare e con chi. Capisce chi ha il senso dell’umorismo, non sceglie a caso. Cerco di consolarmi pensando questo, mentre continua.
« Il barbone che si alcolizza, per esempio, lo fa per anestetizzare il mondo attorno a sè. Per lui non è un piacere, il bere, è una necessità per spegnere chi gli sta attorno » l’attenzione degli astanti, dopo aver udito la parola ‘anestetizzare’ pronunciata senza esitazioni o balbettii, è ora massima. « Motivazione comprensibile ma che non lo giustifica, perchè bere è un atto sacro, non un modo per sfuggire alla realtà. » Applauso dei ragazzi circostanti che sono aumentati, una dozzina in tutto.
« Io non voglio spingere nessuno a bere, io stesso affermo che non è necessario bere e che spesso è deleterio » il tono che stava scemando ora aumenta di intensità e colore « ma è deleterio per chi non sa come si beve e io giungo tra voi, come agnello tra i lupi, per portare la lieta novella! » Il pubblico impazzisce e ridacchia stupidamente per la parodia blasfema.
L’ubriacone si allontana dal gruppo, prende i bicchieri vuoti dalle mani di due ragazze, che ringraziano, un altro calice vuoto che era appoggiato su un tavolino, e li porta al bancone. Poi, lentamente, senza fretta, nel suo incedere zoppicante, ritorna nel gruppetto che si zittisce non appena riattacca a declamare.
Hic!
« Punto primo: cosa bere. Birra, vino rosso, ammazzacaffè. » Li enumera con le dita. « Il resto è roba da frocetti. Con tutto il rispetto per i frocetti, che se poi... vogliono farlo tra loro, affar loro eh » a volte apre parentesi per nulla condivisibili, mancando di rispetto a categorie, etnie, religioni, popoli vicini e lontani, agli immigrati, agli italiani, ai vecchi e ai giovani, in generale a chiunque respiri su questo pianeta o vi abbia lasciato traccia o vi arriverà un giorno. Memorabile quella serata in cui si dilungò per spiegare come, secondo lui, “i Maya sono stati le più grandi teste di cazzo della storia”. Durante queste parentesi perde qualche ascoltatore che non capisce quale importanza dare a quali parole, dimenticando davanti a chi si trova: un alcolista che dispensa la propria filosofia molto discutibile, in maniera molto ignorante. Ascoltare un ubriacone esigendo non dica nulla di scorretto, è come restare sotto la pioggia senza ombrello e pretendere di non bagnarsi. Qualcuno si allontana mormorando critiche, mentre lui, intanto, continua noncurante.
« Puoi bere uno spritz per dissetarti in estate, o dopo una corsa, o per rimorchiare una da portarti a letto. » enumera come un professore alla cattedra « No, niente cocktails. Se infili un ombrellino nel bicchiere, non stai bevendo seriamente: stai preparando una scenografia per un film del cazzo. »
Ai più giovani piace. Turpiloquio e aforismi improvvisati. Alcuni politici ci campano.
« Ve li ripeto: birra, vino rosso, ammazzacaffè. »
« E se a qualcuno non piacesse nessuno dei tre? » osa chiedere un ragazzo.
« Conosco alcuni a cui non piace la birra e qualcuno a cui non piace il vino rosso, » risponde prontamente, « nessuno è perfetto. Non allontanarli come l’istinto suggerirebbe ma sappi perdonare. Digli di procedere con quello che gli piace: birra o vino rosso. Se non ti piace nessuno dei due... Per Dio, ti prego sparisci! » Risate dei ragazzi.
Hic!
« Punto secondo: come bere. » Riprende a guardarmi , rivolgendosi a me solo. Tanto mi aveva tolto prima, con l’insulto, tanto ora mi rende, elevandomi a unico spettatore meritevole.
« Arrivi a casa dal lavoro e ti fai un paio di birre. E’ la soluzione al novanta per cento di tutti i tuoi problemi ma è anche la causa di un dieci per cento che prima non c’era. Fatti due conti e vedi se ne vale la pena. No, ragazzo, non li devi fare ora, i due conti. Certo che ne vale la pena! »
I presenti sogghignano, una ragazza carina si intrufola e mi prende a braccetto, è un’amica che non incontravo da tempo. La saluto con due baci sulle guance, poi torno con lei ad ascoltare.
« Dopo la birra, continui sempre a birra. Oppure passi a vino rosso. »
« E il vino bianco? » domando, ingenuamente.
« Il vino bianco lo dai al tuo cane. » Aspetta che le risatine si plachino e riprende « Poi vai a cena e se eri a birra passi a vino rosso, altrimenti resti a vino rosso. Non è difficile, dai, sforzati per Dio! » mi squote la spalla ma io rimango come imbambolato. La ragazza, come per controbilanciare il karma, mi bacia sulla guancia. Faccio finta di niente ma mi sento un po’ imbarazzato, mentre gli amici vicini mi danno pacche sulle spalle e gomitate nei fianchi.
« Finisci la cena con un ammazzacaffè, uno a scelta tra: amaro, limoncello, nocino, mirto, grappa o liquori fatti in casa. Uno, ho detto. Non di più. Alcolizzarsi con l’ammazzacaffè vuol dire non aver capito un cazzo. » Alcuni annuiscono timidamente, ricordando sbronze recenti.
« Infine, se vuoi continuare a bere anche dopo cena, scegli: birra o vino. »
« Ancora? » domanda uno dei ragazzi seriamente incuriosito.
« Ancora » risponde con una smorfia l’ubriacone, sbeffeggiante, poi continua « ma solo uno dei due. E procedi con quello finché ti reggi in piedi. » Detto questo si allontana, passa vicino ad alcuni tavoli, prende un mezzo bicchiere di vino rosso abbandonato e lo tracanna, poi prende altri due bicchieri vuoti, li porta al bancone e torna indietro per continuare il sermone.
« Punto terzo! » suggerisce qualcuno.
Hic!
« Punto terzo: quando sei ubriaco, sei tu! » I ragazzi ascoltano ipnotizzati, l’ubriacone ha ripreso il proprio posto e mi parla; io mi ero perso negli occhi della tipa, mi ridesto alle sue parole e rientro nella parte di involontario interlocutore.
« Se diventi un’altra persona, insopportabile, che litiga con tutti, che fa a pugni, che si scopa le ragazze degli amici, voglio tu sappia le seguenti cose » comincia a enumerare con le dita, utilizzando questa volta le lettere anziché i numeri.
« ‘A’. Il bere non ti trasforma: elimina le inibizioni e ti fa divenire ciò che sei veramente, se non ti piace ciò che sei allora smetti di bere e rimani nascosto per il resto della tua vita.
« ‘B’. Forse litigare con tutti è la cosa più bella che ti potesse accadere: in fondo, non ti stanno tutti sulle palle?
« ‘C’. Le ragazze dei tuoi amici stanno assieme ai tuoi amici, non sei tu ad aver stretto un rapporto che impone la monogamia, quindi non è colpa tua se sono zoccole » applauso dei maschi che ridono rumorosamente, mentre un paio di ragazze scuotono la testa « ma vale anche il contrario » rivolgendosi alle femmine « quindi non è colpa vostra se vi mettete con degli stronzetti che poi vi tradiscono » applauso e ovazione generale per l’esposizione che non aveva lasciato a nessuno il tempo di reagire in alcun modo.
« Ma che vuol dire che “quando sei ubriaco sei tu?” » chiedo candidamente.
« Vuol dire che il vero bevitore quando è ubriaco è se stesso, è normale, tutti lo conoscono per quello che è proprio in quello stato. Quando è sobrio magari è più taciturno. Ma se cambia personalità, chi beve, vuol dire che prima stava fingendo! »
« E’ proprio così… » dice qualcuno. « Non ne sono del tutto convinto » dice un altro.
Il filosofo alcolista riprende senza ascoltare il brusio circostante.
« Bere è importante per eliminare la finzione, la timidezza, le paure, ma come in tutte le cose ha bisogno di moderazione. Ho ragione o no? »
« Sì! » rispondono in coro i ragazzi affascinati da tale insospettabile magnificienza.
« E ora » conclude guardandomi « non merito forse che qualcuno mi offra un calice di rosso? »
La ragazza mi guarda ammirata, ma non capisco, non ho fatto niente se non fungere da spalla al predicatore etilico. Non mi sembra di aver compiuto nulla che meriti tante attenzioni da parte della bella amica. Eppure lei è lì, a stringermi il braccio contro il proprio seno.
Essere al centro di qualcosa di insensato, ha senso? Chissà.
« Te lo offro io. »
Hic!
E così finisce un’altra serata nel cuore di Bologna.
I ragazzi tornano a casa contenti e brilli, con il ricordo sfocato di ore passate con leggerezza.
Una coppia si bacia, vicino a un lampione, nell’ombra del portico di via Dè Coltelli.
L’ubriacone si lascia andare a un paio di grasse risate che riecheggiano lungo la via deserta fino ad entrare dalla mia finestra, che chiudo, lasciando la camera in penombra.
Poi sorrido, sotto le coperte, penso al giorno che finisce, senza ricercare una morale particolare, e m’addormento.

giovedì 29 agosto 2013

Il biciclettaio di via Fioravanti


« La ruota gira e il cerchio si deve chiudere » disse il biciclettaio sorridendo.
Il termine ‘biciclettaio’ non esiste. Sarebbe più corretto “ciclista”, ma poi lo si confonderebbe con quello che le bici le guida, non le ripara; oppure lo si potrebbe chiamare “meccanico per biciclette”, ma suonerebbe troppo eccentrico per un mestiere umile come questo. Ad ogni modo, anche se biciclettaio non esiste, lui non lo sa, tutti gli portano la bicicletta e lui le aggiusta.


Conosco due persone che fanno questo lavoro, una sta a Codigoro, mio paese natìo nella bassa ferrarese, e l’altra a Bologna, dove vivo e lavoro. Vorrei raccontare di questi due personaggi perché hanno in comune una storia, legata a una bicicletta che per qualche tempo è stata mia.


Giorgio ha più di sessant'anni, da sempre è il biciclettaio di Codigoro. E’ un uomo magro magro, con i capelli grigi impomatati, pettinati all’indietro, e due grandi occhiali da vista le cui lenti, con il tempo, hanno aumentato il loro spessore. Il suo negozio è composto da una sola immensa stanza, completamente zeppa di vecchie biciclette, accatastate le une sulle altre. Lui sta invece vicino alla porta d'entrata, dietro la vetrina, riservandosi quel tanto di spazio che basta per armeggiare attorno alla due ruote di turno, capovolta e poggiata per terra su sellino e manubrio.
Ogni tanto riesce a mettere ordine, ma non dura mai più di un giorno, come se altre bici giungessero di nascosto, nella notte, in fila indiana, venute chissà da dove e sotto chissà quale bizzarra magia, per affollare la stanza fino a saturarla.
Ma osservando meglio, con più attenzione, si intuisce che una qualche regola per posizionare tutto quel materiale è stata rispettata. Un’organizzazione c’è, seppur incomprensibile ai più. E c'è un motivo se niente viene buttato, poiché tutto, prima o poi, potrebbe tornare a nuova vita.


Ci salutiamo, con il sorriso di amici che non si vedono da tempo. Prende uno straccio per pulirsi le mani e mi raggiunge sulla porta. Allungo una mano ma non me la stringe.
« Scusami, sono sporche di grasso » dice mostrandomi un palmo nero.
« Fa niente. »
« Come posso aiutarti? »
« Mi servirebbe una bici da portare a Bologna » gli rispondo.
« Ah, la porti a Bologna. » I suoi occhi si illuminano « Come la vuoi? »
« La più vecchia che hai, le rubano in continuazione... »
Così Giorgio si sposta verso il fondo della grande sala, percorrendo uno dei sentieri venutosi a creare tra le cataste di metallo aggrovigliato, scomparendo dietro una di queste e ricomparendo giù in fondo, vicino a un altro gruppo di scheletri di ferro. Sposta un paio di biciclette, ne tira fuori una per me. Blu. Ritorna pedalando su di essa, facendo attenzione agli ostacoli sporgenti.
« Che ne dici di questa? » mi chiede e, senza aspettare risposta, la capovolge sottosopra e comincia a controllare catena e pedali, chinandosi su di essa.
« Ah, va benissimo. »
« Era di mia moglie, » mi racconta senza voltarsi « grazie a questa l’ho conquistata. »
« Veramente? E sei sicuro che vuoi darla a me? »
« Se la porti a Bologna, sì. Viene da là e vorrei vi tornasse. »
« Ah. » Non capisco ma annuisco.
« La ruota gira e il cerchio si deve chiudere » così dicendo tira verso il basso uno dei raggi facendo girare la ruota anteriore in senso antiorario e sorride.
Giorgio spesso è enigmatico e dà sempre l’impressione di sapere più di quanto non dica.
Ed è impegnativo intrattenere una conversazione con lui. Ci perdiamo in chiacchiere tutt’altro che banali, passando dalla filosofia dei razionalisti alla letteratura russa. Perché Giorgio è il biciclettaio di un piccolo paesino di provincia ma legge Dostoevskij. Non che una cosa debba per forza escludere l’altra ma di certo è insolito. Ha una visione della vita molto inquadrata, liberale e conservatrice, ma anche coerente e degna di attenzione, frutto di continui confronti quotidiani coi clienti che non mancano mai di sostare sulla sua porta. Come me, in questo momento.
Parliamo, mentre rimonta la carenatura: condivido molte sue idee sulla società che sta cambiando, sulla perdita delle tradizioni e dell’identità culturale, lo contraddico solo quando critica i giovani delle nuove generazioni.
« Non hanno né fame né ambizione, sono degli smidollati come Stepan Trofimovič. »
« Eccolo, lo sapevo che prima o poi avresti tirato in ballo “I Demoni”! » replico « Ma non siete forse stati voi, i nostri genitori, a sfamarci, avendo avuto la fortuna di vivere il cosiddetto “miracolo economico italiano”? »
« L’abbiamo voluto creare, quel miracolo, con volontà e passione, lavorando una vita. Ora dicono che il lavoro manca ma il lavoro lo si crea o lo si cerca, chi resta a casa non lo trova di sicuro! »
« Se di lavoro non ce n’è, hai voglia a cercarlo! La crisi di oggi è dovuta a decisioni prese da politici che voi avete votato negli ultimi decenni. E poi oggi la nostra economia si deve confrontare con quella dei paesi del resto del mondo. Le aziende chiudono! »
« La politica è sempre quella, un branco di maiali, sono cambiate le facce ma non il modo di gestire il potere. E nonostante questo, » insiste « noi siamo riusciti a costruire un paese. »
« Lasciandoci un sacco di debiti » faccio notare. « Questo tenore di vita che abbiamo sempre visto crescere, non è più possibile per tutti, né sostenibile per il pianeta. Non ce lo possiamo permettere di essere ambiziosi e pretendere di avere tutti due case, due macchine o più. »
“Se tutti andassero in bicicletta, il problema sarebbe risolto!” esclama.
“E tu saresti l’uomo più ricco del paese!” concludo.
Ne ridiamo assieme. Finisce patta, ognuno resta sulle proprie convinzioni ma ognuno porta a casa un nuovo punto di vista su cui riflettere. Io anche una vecchia bicicletta blu.


Stavo tornando dal lavoro. Dopo alcune settimane di viaggi, avanti e indietro per le vie dissestate del centro di Bologna, la vecchia bici blu aveva cominciato a dare segni di cedimento: se spingevo sui pedali con forza, sentivo che di lì a poco qualcosa si sarebbe rotto.
Stavo dunque pensando a dove portarla a riparare, fermo al semaforo del ponte della stazione di Bologna, quando qualcuno mi ha toccato il braccio.
Mi sono voltato e ho trovato un ragazzo sui venticinque anni con capelli lunghissimi, raccolti dietro la nuca, vestito in modo un po’ trasandato e colorato.
« Hai visto? » mi ha chiesto indicando la bici su cui era seduto « sono uguali. »
Ho guardato la sua, poi la mia. Effettivamente erano proprio uguali, e per due bici così vecchie era una straordinaria coincidenza, ma non ho replicato visto la stranezza dell’approccio.
« Però la tua è da donna e la mia è da uomo » mi ha fatto notare.
« Dunque? »
« Vorrei proporti uno scambio, ma non con questa. Ti spiego, ho cominciato ad aggiustare biciclette da un paio d’anni, in via Fioravanti, e ho da poco comprato una Legnano rossa a un’asta, l’ho rimessa a posto proprio in questi giorni. E’ una gran bici ma io vorrei la tua. »
« Perché la mia? » ho domandato incuriosito.
« Perché se mi dai la tua posso regalarla alla mia ragazza. Abbiamo litigato e vorrei far pace e credo che » imbarazzato ha cercato le parole per continuare « che... sì, sarebbe carino andare in giro per la città con le biciclette uguali, io con quella da uomo e lei con quella da donna. »
Ero colpito. Ma il mio scetticismo era maggiore del mio stupore.
« Ora ho da fare, lasciami il numero, ti richiamo e vengo a vedere l’altra bici. »
Lungo la via del ritorno ho riflettuto sulla possibilità del baratto:
« O vuole rifilarmi una bici rubata oppure è veramente innamorato e, di conseguenza, un po’ rimbecillito. In ogni caso, questa bici è veramente vecchia, ha bisogno di una revisione e andare a vedere l’altra non costa nulla. Ho deciso, andrò. »


Nonostante i normali acciacchi, quella che guidavo era una signora bicicletta, di un colore blu scuro che a tratti diventava rugginoso. La chiamo ancora “signora”, sia perché, essendo senza cannone, è considerata da donna, sia perché era meccanicamente perfetta, nonostante alcune parti fossero state sostituite con quelle di altre bici. Quando incontravo una leggera discesa potevo smettere di pedalare, sembrava che l’attrito svanisse e che il mezzo si librasse a mezz’aria, avanzando all’infinito, per inerzia, con il ticchettìo monotono della ruota posteriore come unico accompagnamento musicale.
Mi sono spesso chiesto come fossero le biciclette da cui Giorgio ha preso i pezzi per mantenere viva la signora blu. Quanti chilometri devono aver percorso e quante vicissitudini dei loro padroni devono essersi incrociate e sovrapposte lungo le strade del tempo.


Arrivato all’indirizzo dato dal figlio dei fiori, trovai una sorpresa: al posto di un’officina o di una normale abitazione, come mi sarei aspettato, c’era un centro sociale occupato.
Entrai comunque dal cancello, portando la bici a mano, e chiesi al primo passante, un ragazzo con la barba incolta, vestito con un eskimo e un vecchio numero dell’Unità sotto braccio, se conosceva il biciclettaio.
« Sì, sta proprio là » mi rispose indicandomi una delle entrate dell’edificio.
« Grazie compagno » alzai il pugno sinistro, per scherzare, ma il giovane replicò serio con lo stesso gesto della mano chiusa. “Che bello” pensai dirigendomi verso il punto indicato “esistono ancora i comunisti nei centri sociali, pensavo si fossero estinti con l’avvento degli smartphone.”
Dall’enorme porta lasciata aperta sentii diffondersi nell’aria le note della chitarra di John Fahey (solo successivamente seppi che quel particolare bellissimo pezzo, figlio degli anni 60, si chiamava “Bicycle Built For Two”).
Entrai e mi arrestai sulla soglia perché mi si era presentato uno spettacolo davvero inaspettato: decine e decine di biciclette accatastate le une sulle altre, in un ordine caotico ben familiare.
Il giovane fricchettone, poco distante, stava lavorando su una bici, poggiata a terra, sottosopra; vedendomi sorrise e abbassò il volume della vecchia radio.
“C’è qualcosa di diverso il lui” pensai “forse gli occhiali da vista, non mi pare li portasse ieri.”
« Me l’hai portata! » quasi urlò entusiasta pulendosi le mani con uno straccio.
« Eh sì, ma davvero... non so se ti conviene questo scambio, il pedale mi sta dando problemi, forse bisogna stringerlo. E uno dei freni... sì insomma, frena poco. »
« Non ti preoccupare, ci penso io, dopo averla controllata sarà come nuova! »
Mi mostrò la bici rossa che voleva darmi in cambio, la provai nello spazio antistante e pensai subito, dopo un paio di pedalate, che era decisamente un buon affare.
Prima di andarmene con il nuovo mezzo, mi fermai sulla soglia e mi voltai.
Il ragazzo mi guardava con occhi amichevoli, tenendo la signora blu davanti a sé.
« Bel casino qui, eh? » mi guardai attorno, sembrava una discarica di materiale ferroso.
« Eh già » sorrise il ragazzo « qui tutti portano un po’ di tutto, per cercare di salvare il salvabile e riutilizzare ciò che può tornare utile. »
« E’ una buona cosa. »
« Un giorno, comunque, vorrei comprarmi un’officina mia. »
« Sempre qui a Bologna? »
« No, in un posto più tranquillo, tipo a Codigoro. »
« Hai detto Codigoro? »
« Sì, la mia ragazza è di là. »
« Ma dai, anch’io! » feci un passo verso di lui e allungai la mano, presentandomi.
« Scusami, ho le mani sporche di grasso. Mi chiamo Giorgio. »
« Fa niente, » come destato da quel nome, gli chiesi « Giorgio... ci conosciamo? »
« Oh sì » mi rispose sicuro il ragazzo « abbiamo parlato di Dostoevskij, tanto tempo fa. »
Osservai con attenzione gli occhi dietro le lenti.
« Non è possibile tu sia... »
« La ruota gira e il cerchio si deve chiudere » disse il biciclettaio sorridendo.

domenica 18 agosto 2013

Red Apple (parte 3)

“Abbiamo perso, Signore” comunicò il capitano Alfan guardando verso il basso i dati che apparivano sulla superficie trasparente del grande tavolo.
Le undici donne, disposte uniformemente attorno, rimasero in silenzio, sedute compostamente.
Il governatore B si muoveva lentamente alle loro spalle, lievitando su una piccola piattaforma antigravitazionale che compiva, fluttuando in senso antiorario, l’intero moto di rivoluzione. Era vestito elegantemente, come sempre, con un completo firmato ValentinE, provvisto dell’ultimo microprocessore da 9000 yottahertz. Tra le mani teneva un oggetto che stonava sia con il suo abbigliamento, sia con il contesto: una mazza da baseball in acciaio, nera.
"C’è però una buona notizia" il militare, non ricevendo nessuna replica, lesse un frammento dalle notizie riportate sul tavolo:
"Grils, a capo della ribellione sul pianeta Verde, ha convinto gli altri attivisti a non scendere a compromessi con nessuno. Questo vuol dire...”
Si interruppe. Seguì il governatore con la coda dell’occhio finché non lo vide sparire alla propria sinistra. Era dietro di lui, ora. Una goccia di sudore scese lungo la guancia di Alfan.
“Continui, capitano” disse perentorio B rispuntando alla sua destra, trasportato dalla piattaforma che procedeva silenziosamente a mezz’aria.
“Questo vuol dire” si schiarì la voce “che gli altri gruppi, senza l’appoggio del pianeta verde, non potranno ottenere una maggioranza per formare il nuovo governo galattico. Hanno bisogno di noi. Se tutto va come deve andare, resteremo dove siamo, al potere.”
Il governatore appariva calmo, posato, teneva entrambe le mani sulla mazza da baseball che ammirava con attenzione, noncurante di queste notizie. Ma c’era qualcosa sul suo viso che un osservatore più attento avrebbe potuto certamente notare: una vena sulla fronte che pulsava insistentemente e che Alfan aveva riconosciuto fin dall’inizio della riunione.
“C’è altro?” chiese B.
“E’ arrivata la sentenza definitiva” non esitò a rispondere, voleva togliersi quel dente che gli doleva tanto da fargli perdere il controllo neurale del dispositivo anti-sudorazione della divisa.
“Vogliamo rendere partecipe l’intero consiglio?” suggerì accompagnando le parole con un ampio movimento della mano che reggeva la mazza.
“Colpevole. Quattro anni per aver frodato la repubblica galattica” la voce di Alfan sembrava sempre meno sicura, il suo viso più madido.
“Ripeta più forte!” ordinò B mentre oltrepassava l’altro capo del lungo tavolo.
“Lei è stato condannato a quattro anni, Signore. Ma non deve temere. I suoi cloni penalisti si sono già messi in moto e utilizzeranno come carta vincente proprio il fatto che il governo non si potrà formare senza di lei. Sono obbligati a lasciarla libero!”
Il volto del governatore era inespressivo, solo quella vena sulla fronte continuava a pulsare imperterrita e i suoi occhi avevano in quel momento qualcosa di atavico, anzi, di primordiale, una luce che è propria delle bestie, una luce che pochi avevano conservato nel proprio DNA.
“Questo” sollevò la mazza da baseball “è un pezzo d’antiquariato che non ha prezzo. E’ ritenuto l’ultimo esemplare esistente nell’intero universo, dopo la distruzione del pianeta Terra da cui proviene. Lì veniva utilizzato, nel ventesimo secolo, come strumento in un gioco di squadra.”
Una delle donne sospirò, languida, un’altra annuì con convinzione mostrando interesse.
“Anche noi siamo una squadra” cominciò a declamare il governatore mentre passava dietro il capitano Alfan. Quest’ultimo chiuse gli occhi e trattenne il respiro finchè la voce non riprese.
“E in ogni squadra tutti partecipano per giungere alla vittoria” si fermò dietro a una donna che indossava una tuta bianca. Le appoggiò una mano su uno dei seni, strizzandolo con forza. Lei aprì la bocca stupita ma subito dopo gli sorrise, con un’espressione estasiata.
“Carfa40, per esempio, è riuscita a sensibilizzare l’opinione pubblica tramite la definizione di uno spot neurale che è tra i più convincenti che io abbia mai visto.” Il settantenne baciò la giovane donna infilandole la lingua in bocca, poi si rialzò e riattaccò “Dopo aver caricato due volte nella mia memoria questo spot neurale mi stavo convincendo io stesso di essere innocente” tutte risero, lui continuò a fluttuare attorno al tavolo, sorridente, fermandosi dietro un’altra donna.
“Santan3” infilò una mano dentro la scollatura della tuta blu della donna “si è lavorata i controllori del primo e del secondo livello, riuscendo a trovare precedenti che consentissero di applicare la legge galattica in modo assolutamente originale” tutte risero ancora. Alfan seguiva il discorso cercando di partecipare all’ilarità generale ma non riusciva a nascondere la preoccupazione e il sudore che imperlava fronte e guance.
“Tutti noi facciamo parte di una squadra” palpeggiò un’altra donna sorridente, senza guardarla né fermarsi “e se è vero che solo uno di noi vince mentre gli altri lo aiutano a raggiungere il traguardo,” il tono della voce andò in un crescendo coinvolgente “non è forse anche vero che quella vittoria diviene la vittoria dell’intera squadra?”
“Vero!” risposero tutte le donne in coro, una tuta nera si asciugò una lacrima di commozione, un’altra rossa gemette e portò una mano in mezzo alle gambe.
“E allora vorrei sapere dal capitano Alfan perchè non sta aiutando la propria squadra”
“Vede ma io...”
“Vorrei sapere dal capitano Alfan perchè non abbiamo vinto anche sul pianeta verde.
Vorrei sapere dal capitano Alfan perchè non ha comprato i controllori del terzo livello.
Vorrei sapere dal capitano Alfan perchè tutti i suoi compiti non sono stati portati a termine, mentre questi nuovi splendidi cloni hanno eseguito alla lettera quanto da me ordinato”.
Alfan, grondande di sudore, balbettò le proprie giustificazioni con poca convinzione, mentre il governatore gli si avvicinava fluttuando:
“Sul pianeta verde... gli spot neurali non sono più obbligatori per legge, gli abitanti non accedono più ai canali mediatici, di nessun tipo e... e i controllori di terzo livello sono inavvicinabili!”.
Una delle donne al tavolo si lasciò sfuggire un risolino a cui ne fecero eco altri, in tutto e per tutto identici a quello.
“Come osate ridere di me?” il militare si alzò in piedi “Voi! Voi che siete solo... cloni!”
“Alfan, siediti” il governatore, che nel frattempo si era avvicinato, gli posò una mano sulla spalla.
“Ma io...” sconsolato si rimise al suo posto mentre B, dietro di lui, continuò con tono più calmo:
“Vedi, io ti conosco da molto tempo. Io e tuo padre eravamo grandi amici, lo sai. E io ti voglio bene come a un figlio” il tono della voce aveva perso la ferocia di poco prima.
“E io a voi come a un padre!” esclamò commosso il capitano senza voltarsi.
“Ma questa è una squadra. Non importa chi vi sia dentro, da che pianeta vengano i suoi membri, non importa che siano nati con fecondazione assistita o invece clonati, e non m’importa neppure come giochino, l’importante è una cosa sola: vincere.”
“Lo so, mi dispiace”
“Tu, Alfan, hai rischiato di farmi finire fuori dal gioco.”
“Ma Signore io...”
“Taci. Io sono molto paziente. Mi sei rimasto solo tu, dei vecchi ‘veri umani’, ci tengo a te.”
Alfan fece un lungo profondo sospirò, era sollevato e allo stesso tempo commosso e pieno d’affetto per quell’uomo che ammirava così tanto. Pensò a quando da piccolo il padre lo aveva portato dallo zio B a giocare sul suo satellite personale, dove il tramonto durava un giorno intero, quante risate e quanti bei momenti avevano vissuto assieme. In quel preciso momento una mazzata colpì la testa di Alfan, un colpo secco e potente che fece schizzare sangue sulle donne più vicine. La testa di Alfan cadde in avanti, sulla superficie trasparente, dalla bocca uscì copiosamente del sangue, alcuni spasmi muscolari al collo lo fecero sussultare e così B lo colpì ancora una volta e poi un’altra e un’altra, finchè Alfan non si mosse più.
Le donne sedute al tavolo non avevano reagito con nessun particolare gesto di stupore. Avevano guardato la scena con distacco. Alcune di loro, dopo essere state schizzate di sangue sul viso, semplicemente sorrisero, con un’espressione illogicamente dolce e affettuosa.
“Ragazze” guardò i cloni seduti al tavolo “l’ho sempre pensato ma mai come oggi ho voluto dirlo ad alta voce: voi del progetto Red Apple siete il futuro, l’umanità è roba sorpassata.”
Applauso unanime.