mercoledì 12 settembre 2012

Antipatico in Libreria

Oggi sono sceso dall’autobus un paio di fermate prima, per fare un salto in libreria, nonostante sia la settimana più calda del mese più caldo dell’anno, nella città più calda d’Italia che non è Palermo, dove arriva dal mare blu una leggera brezza, bensì Bologna, dove il mare più vicino dista cento chilometri ed è verde, e dove l’unica cosa che soffia, quando soffia, è il fon di Dio: aria calda sparata contro il nostro sudore appiccicaticcio, per ricordarci che la vita è sofferenza, sopportazione e patimento.
Questa frase mi piace lunga così, non rompere.
E’ da molto che non compro nulla da leggere, negli ultimi anni si sono accumulati troppi libri sul comodino e sul ripiano e sulle mensole e sulla scrivania. Ho così cercato, per diversi mesi fino ad oggi, di frenare quell’istinto all’acquisto selvaggio, paragonabile solo a quello di una quattordicenne con il portafoglio pieno, che si ritrova di fronte a una vetrina di gonne filopassera all’ultima moda. Oggi, invece, mi sono detto “al diavolo, approfittiamo di questa settimana in cui sono ancora tutti al mare, fuori dai coglioni, andiamo alla Feltrinelli sotto le due torri, mi metto a leggere qualcosa a sbafo, c’è l’aria condizionata, magari trovo pure qualcosa di interessante”.
Sarebbe più sano prendere in prestito i libri in Sala Borsa, la grande biblioteca di Bologna situata in Piazza Maggiore, dietro il culo del Nettuno. Purtroppo il messaggio di John Lennon, nella sua bellissima “Imagine”, non ha attecchito come sperato nel mondo occidentale. Dovremo convivere con il concetto di proprietà privata ancora per qualche secolo. Per oggi mi adeguo al mio tempo e seguo il branco. Sono consapevole di aver raggiunto una certa maturità per compiere l’acquisto solo nel caso l’opera sia veramente importante, indispensabile, un’opera che possa espandere i miei orizzonti verso nuove illuminazioni sul senso della vita e la comprensione degli altri. O, viceversa, qualcosa di ben scritto.
Sono entrato e mi sono arrestato alcuni attimi per la differenza di temperatura di una decina di gradi. Mi stupisco sempre quando ciò che percepiamo da fuori si rivela essere diverso da come in effetti è dentro.
Ho attraversato velocemente filosofia e sono infine entrato nella sala dei narratori. Qui ha attirato la mia attenzione un libro di Charles Bukowski che non avevo mai visto, “Il Capitano è fuori a pranzo”. In copertina c’era un disegno di un uomo barbuto con un accappatoio a righe, immerso fino ai fianchi nell’acqua di una piscina, mentre una bionda, di cui era visibile solo la nuca, gli stava facendo presumibilmente un pompino. Magia della prospettiva. Ho letto l’inizio della quarta di copertina: come immaginavo non si trattava di un romanzo ma di una raccolta, pagine di un diario scritto negli ultimi anni di vita. L’ho aperto a una pagina a caso, ho letto alcuni frammenti, l’ho annusato e ho guardato nuovamente la copertina.
“Vieni con me, Charles, consigliami qualche altro libro”.
“A me piace molto Hemingway” mi risponde.
Ho cominciato a scorrere i titoli dei classici. Ho preso in mano “Il Grande Gatsby” di Scott Fitzgerald, libro che già avevo in casa; cominciato poco tempo prima, l’avevo dimenticato sotto qualche altro libro senza terminarlo. Mi sono seduto su una poltroncina e ho cominciato a leggerlo, senza vergognarmi, cosa che succedeva con l’edizione di colore rosa che possedevo, comprata da mia madre trent’anni prima come allegato al giornale “Grazia, il settimanale per le donne sensibili e delicate”. Come se il colore non fosse stato sufficiente vi avevano specificato, in stampatello, che si trattava di un “ROMANZO D’AMORE”. Non avevo mai dato particolare importanza all’aspetto esteriore di un libro ma il mese prima, mentre lo leggevo sull’autobus, un senegalese dalle lunghe treccine mi rivolse parola con accento francese: “un romanzo d’amore, devi avere un animo molto sensibile, comment tu t’appelle?”, “je m’appelle David, scusami, alla prossima fermata devo scendere, ciao”. E’ incredibile come il cervello elabori velocemente e in maniera creativa una via di fuga in caso di pericolo. Mi sono chiesto se qualcuno della redazione di Grazia degli anni ottanta l’avesse mai letto, “Il Grande Gatsby”. Mi piacerebbe andarci, alla redazione di Grazia, verificare se vi lavora qualcuno di allora, parlargli con calma, dirgli che il suo lavoro può avere ripercussioni devastanti sulle nostre vite. Per decenni.
Torno sul libro che ho tra le mani, “Non importa se questa edizione è più sobria”, mi sono detto, “finirò il capitolo per poi lasciarlo dove l’ho preso. Le parole che contiene sono le stesse dell’edizione ambigua, che senso avrebbe ricomprare le stesse identiche parole avvolte da una copertina diversa? Questo libro non è migliore del mio, non è scritto meglio, è lo stesso identico libro”. Il ragionamento non faceva una piega. Ho ripreso a leggere nel silenzio generale della sala deserta.
Una voce squillante di donna, intenta a conversare al cellulare, mi ha distolto improvvisamente dalla lettura. L’ho ascoltata quel tanto che bastava per capire che stava parlando con un’amica, niente di particolarmente importante, chiacchiere sul cane.
Eppure i secondi passavano e la telefonata non terminava.
Mi sono sempre chiesto come fanno le donne a stare tutto quel tempo al telefono. E’ un aspetto che non invidio perchè sono dell’idea che, per citare un poeta ferrarese, “con le nostre discussioni serie si arricchiscono solo le compagnie telefoniche”. Allo stesso tempo mi incuriosisce questa capacità: poter comunicare per così tanto tempo, trasferire così tanti dettagli, particolari apparentemente privi di una qualsiasi minima utilità, sia per loro, sia per me, che per il mondo intero. Eppure, ne sono certo, questo scambio continuo di informazioni, questa mole incredibile e inimmaginabile di esperienze condivise, rende le femmine caratterialmente più forti e preparate ad affrontare la vita rispetto a molti maschi.
Pensando questo ho rinunciato a continuare il Fitzgerald e ho ripreso in mano il Bukowski, per leggere ancora la descrizione sul retro e convincermi definitivamente che fosse un buon acquisto.
La donna continuava a parlare, passando lentamente in rassegna le copertine disposte in ordine sulla lunga tavola che ci separava.
Ho cercato di concentrarmi sulla lettura, benchè gli acuti della donna interrompessero di continuo il flusso dei miei pensieri:  
“le corse di cavalli sembrano l’unica ragione degli anni estremi...”
“Il veterinario ha detto che devo aspettare e portarglielo lunedì”
“anni estremi, trascorsi nell’altalenante routine tra monitor...”
“Ti rendi conto? Stellino sta male male e quello resta in vacanza!”
“tra monitor... tra monitor e ippodromo. Un libro al vetriolo...”
“Ma se stesse male lui e al pronto soccorso fossero in vacanza?”
“Un libro al vetriolo... vetriolo... un libro al vetriolo”.
Ho smesso di leggere, non stavo capendo più nulla. Ho sollevato gli occhi verso la donna, lei lo ha notato e ha ricambiato lo sguardo. Era sulla trentina, aveva un bel viso, sebbene troppo truccato per i miei gusti, ed era ben fatta, con le curve dove dovevano essere. Non l’avevo osservata prima, la voce implacabile e poco armoniosa aveva spento in me qualsiasi curiosità di sapere da quale essere vivente provenisse. Prima ancora che cominciassi a fantasticare su quel corpo, un nuovo assolo telefonico mi ha riportato alla realtà, facendomi giungere alla conclusione che non potevo avere il suo corpo senza quella voce, erano parti di un tutto. Lei continuava a guardarmi mentre parlava con l’amica, gesticolando con la mano libera, denigrando chiunque fosse oggetto del discorso: il veterinario, il ragazzo, il vicino. Quel modo di porsi, saccente e presuntuoso, la faceva assomigliare terribilmente alla mia ex moglie.
Una copertina diversa di un libro che non mi andava di rileggere.
Mantenendo lo sguardo su di lei ho alzato lentamente il Bukowski, mostrandole il disegno dell’uomo in piscina. Lei, sorridendo, ha prima cercato di metterlo a fuoco, protendendosi verso di me, poi vi è riuscita. Lo so per certo perchè ho visto il sorriso spegnersi. La donna si è allontanata condividendo con l’amica la propria indignazione; io ho percepito solo “cafone”, mentre usciva, ma tanto mi è bastato per rallegrarmene.
“In questa sala”, mi sono detto solenne, come fossi Clint Eastwood che ha appena ucciso il cattivo col fucile, “non c’è posto per le parole inutili”.
Una voce radiofonica ha comunicato che la libreria stava per chiudere. Ho pagato e sono uscito dalla libreria, capitan Bukowski era con me e all’ultimo avevo deciso di prendere anche il sobrio Fitzgerald. Ho pensato che, sebbene la cosa più importante sia il contenuto, a volte anche la copertina ha la sua fottuta importanza.  

1 commento:

Bibi ha detto...

ma cosa mi sono persa fino ad oggi cacchio?