martedì 25 dicembre 2012

La fruttivendola di via Orfeo


Fa freddo. Il respiro si condensa nell'aria. Fingo di soffiare fumo. Ho smesso con le sigarette da un paio d’anni ma ne ho ancora il desiderio. Uno stato di insoddisfazione permanente. Cammino a passo spedito, con le mani ficcate nelle tasche del cappotto pesante, la sciarpa di lana avvolta attorno al collo, il berretto calato fino alle sopracciglia.
Via Orfeo stasera è buia, capita raramente che per un qualche guasto manchi la luce nel quartiere bolognese.
Non scorgo luci alle finestre sopra le colonne del portico e, ancora più in alto tra le due fila di palazzi, non vi sono né luna, né stelle, né cielo.
In lontananza, nell’oscurità più totale, riconosco un piccolo quadrato luminoso: è la fruttivendola di via Orfeo.
Mi avvicino alla cornice, guardo al suo interno attraverso la vetrina, entro sospingendo la porta che avevo trovato socchiusa.
La fruttivendola è un’anziana signora, minuta, arzilla ma sempre molto composta e padrona di una dignità che sembra andata perduta nel tempo. Si tinge i capelli di castano biondo ma è una cura, questa che si concede, che non è mai appariscente: è il suo colore, quello che è stato e quello che sarà sempre, come in un quadro. Il suo nome è Antonia.
“Buonasera” chiudo la porta alle mie spalle.
“Buonasera” di rimando la signora, con un’occhiata veloce, mentre serve un ragazzo al quale si rivolge seria e decisa “dopo le carote, cosa desidera?”
Il cliente, uno studente universitario allampanato e trasandato, con una borsa a tracolla su una spalla e un paio di libri stretti al petto, risponde incerto “nient’altro”, con un filo di voce appena percettibile.
“Come dice?” urla la signora sorprendendo sia lui che me “Voce!”
“Niente, grazie” bofonchia un po’ più forte lo studente.
Io cerco di frenare il sorriso. Lui paga ed esce senza salutare, contento come se avesse superato un esame difficile.
E non chiude la porta. Mi avvicino io, allora, e la richiudo. Guardo fuori nella via buia.
Il nulla. E un ragazzo che viene inghiottito dal nulla.
Voltandomi sono invece accolto dal colore di agrumi gialli e arancioni, avanzo di un passo tra pomodori rosso vivo, divisi per tipo nelle cassette di legno, e colgo la fragranza delle altre verdure disposte in un angolo verde intenso.
Mi sembra quasi di star meglio.
Dico “quasi” perché in realtà anche lì dentro fa freddo. E fa freddo perché, di tanto in tanto, qualcuno non chiude la porta.
Ma come fa questa esile signora a resistere al gelo?
Alle mani ha dei guanti di lana che però non coprono interamente le dita. I polpastrelli le servono liberi, per poter afferrare frutta e verdura, per poterla tastare e verificarne il livello di maturazione e così dare, ai propri clienti, solo i prodotti migliori della terra. Non sto esagerando, è proprio così!
Una volta mi disse che la bassa temperatura aiuta a conservar meglio la merce. Aveva aggiunto, di spalle mentre spostava una cassetta di limoni, che “per non patire il freddo bisogna darsi una mossa!”
Ma io credo l’avesse detto perché lagnarsi non fa parte della sua natura. Non si lamenta mai. Combatte. Non ha più la forza fisica della giovinezza ma, sì, lo spirito è sempre quello. E ne ha viste, la signora Antonia, affrontando tutto con coraggio: la guerra, la perdita del marito, la partenza dei figli, l’apertura di nuovi supermercati e la crisi che ha decimato i piccoli negozi come il suo.
Tutto cambia ma lei resiste, tenace, resiste da sola, resiste al mondo avverso, resiste a tutti noi.
"Una volta la gente era più grintosa, è vero o no?" mi chiede.
“Sicuramente più grintosa ed educata” le rispondo prontamente.
Quando entro in quel negozio, presto sempre molta attenzione alle parole che ci scambiamo, cerco di restare concentrato. E’ uno stato d’animo che mi piacerebbe avere costantemente, con chiunque io incontri, ma che non riesco a mantenere lungo la giornata. Sono sicuro ci sia stato un tempo in cui rischiavi la vita, se non rimanevi concentrato. Forse, questa della signora, è l’ultima generazione di quelli che riescono a rimanere sempre vigili e vivaci, l’ultima generazione prima dell’apatia e dell’insofferenza dati dal benessere.
“Cosa Le do?”
“Quattro pomodori, per favore.”
Quando si rivolge ai clienti, la fruttivendola dà sempre del "Lei". Anche a me che ormai vengo qui da una decina d’anni. In passato questa formalità mi risultava esagerata. Ero un suo cliente abituale, dopotutto. Ho anche provato a darle maggior confidenza ma non è servito, ha continuato e continua a darmi del Lei. Solo con il tempo ho capito che un protocollo rigoroso come questo proveniva da un'altra epoca: un periodo in cui si era, o quantomeno si cercava, di essere Signori. Ora può essere erroneamente inteso come un modo per sopravvivere, quando lavori a così stretto contatto con persone fatte di tutt'altra pasta.
“Poi, che altro?”
“Vorrei quattro o cinque mele” guardo alle mie spalle.
“Quattro o cinque?” mi chiede, avvicinandosi.
“Quattro” le rispondo subito, tornando su di lei.
“Di che tipo?”
“Golden.”
La mia prima richiesta era stata generica, sia sulla quantità che sulla qualità della merce, per fortuna avevo poi saputo dare risposte rapide e concise. In passato, nella stessa situazione, avevo tentennato ed ero stato ripreso con una frase di questo tipo: “Su avanti, giovanotto, tra poco devo chiudere il negozio, è venuto qui sapendo cosa vuole o no?”
Uno spasso. E una palestra di vita, tanto vivace quanto impietosa.
“Poi, cosa le do?” mi chiede.
“Sei di queste arance.”
La signora le sceglie una per una. Di guaste, non ne vedo, eppure riesce ad effettuare una precisa ed immediata selezione delle sei più belle arance della cesta.
Nel frattempo entra una ragazza, sui venticinque anni. Ha un cappotto marrone e capelli che escono dal berretto di lana verde, ricci, lunghi fino alle spalle.
E’ attraente.
“Ah, che fortuna!” esordisce sorridente “Oggi sono proprio fortunata!”
Sia io che Antonia spostiamo lo sguardo sulla nuova venuta.
“Come mai è fortunata?” chiede la fruttivendola infilando l’ultima arancia nella busta.
“Vedo che sono rimaste ancora un po’ di cime di rapa, solitamente a quest’ora non le trovo mai.”
Io e la signora torniamo alla nostra compravendita mostrando poco interesse alla risposta.
“Dopo, cosa Le posso dare?” mi chiede.
“Mi dia tutte le cime di rapa rimaste.”
La ragazza si lascia sfuggire un gemito; mi volto, mi sta guardando tra lo stupito e il dispiaciuto. E’ buffa.
Sia io che la signora sbottiamo a ridere di gusto.
“Stavo scherzando” la rassicuro “sono a posto così.”
“Ci sono proprio cascata” mi dice la ragazza sorridendo.
“Scusami, non ho resistito.”
“Dovrà farsi perdonare” interviene la signora. Mentre sta battendo lo scontrino ancora sorride e sotto sotto me ne compiaccio, sento di aver usato quella stessa vivacità che l’ha sempre contraddistinta.
Le porgo una banconota di piccolo taglio, lei cerca il resto tra le monete, le porta una a una a pochi centimetri dagli occhi. Io guardo la riccia, che mi sorride.
“Che ne dici se mi faccio perdonare con un caffè?” le chiedo. Non sembra sorpresa.
“Mi sembra una buona idea. Mi aspetti?”
“Certo” prendo il resto e la spesa.
La fruttivendola mi strizza l’occhio. Ho la sua approvazione.
Non sento più freddo.

domenica 23 settembre 2012

La Settima Nota

« Sì, devi girarlo! » mi dicono « Giralo! »
Io guardo i compagni di terza elementare che sono a fianco, non capisco. Il pubblico bisbiglia, ridacchia, guarda noi sette, illuminati nel buio della grande sala. La maestra chiama il mio nome, la vedo fare strani gesti a lato del palcoscenico.
Cosa vuole?
Il brusio aumenta di intensità, le risate si fanno più forti.
Cosa volete tutti?
Guardo i miei genitori seduti tra il pubblico, anche loro sorridono e mio padre si tocca il petto più volte. Mea culpa, mea culpa, mea grandissima culpa.
Perchè mi avete costretto a venire qua?


Un paio d’ore prima ero a casa, spaparanzato sul divano. Alla televisione davano una puntata del telefilm “Manimal”, l’uomo mutaforma che può divenire giaguaro, pitone, falco: respira con calma, trova la giusta concentrazione, per trasformarsi.
Inspira profondamente. Espira profondamente.
Chiamano per cena. Rinuncio alla trasformazione.
Ci sediamo a tavola e mangiamo.
Il telegiornale finisce e i nostri piatti sono vuoti. Mio padre si è acceso una sigaretta. Mamma ha cominciato a sparecchiare.
« E anche stasera abbiamo mangiato » dice mio padre, io annuisco sorridendo « come è andata oggi? » mi chiede.
« Bene » rispondo pronto « ho preso B in storia! »
« E perché non hai preso A? »
Mio padre è sempre molto serio ed esigente quando si parla di scuola. Ha abbandonato gli studi dopo la terza media ed è andato a lavorare in campagna col nonno. Solo in seguito, quando ha visto colleghi più giovani percepire uno stipendio più alto, facendo lavori meno faticosi, si è reso conto dell’errore commesso: avere interrotto gli studi è uno dei suoi grandi rimpianti. Ora non vuole che si ripeta.
« Mi raccomando, studiare è importante, devi pensare solo a questo. »
« Lo so papà, studio! »
« Hai qualche interrogazione nei prossimi giorni? »
« No, nessuna. Anche se... » mi convinco non ci sia niente da nascondere, saranno d’accordo con me che non è importante « stasera c’era il saggio di musica. Ma non vado. »
Si voltano verso di me, allarmati, con una reazione che non mi aspettavo.
« Il saggio di musica? E’ stasera? » chiede mia madre nel panico.
« A che ora comincia? » esige di sapere mio padre.
« Alle nove e mezza ma... » balbetto « non importa, non sono pronto, non ci voglio andare. »
« Tu ci vai » lapidario « se usciamo fra poco siamo ancora in tempo. » Il padre si alza dalla sedia e si appresta a seppellire nel ridicolo il proprio unico figlio.


***


La clavietta è, assieme al flauto dolce, uno degli strumenti più temuti della storia. 
Gli studiosi sono concordi nel farne risalire l’invenzione al tardo Medioevo, ad opera del tedesco Frank Xaver Mohr.
Mohr aveva ideato una prima versione della clavietta come giocattolo per il figlio: si trattava di una piccola tastiera con sei tasti che funzionava come strumento a fiato. In questo modo, pensava Mohr, il bambino si sarebbe avvicinato allo studio del pianoforte classico, divertendosi. Ma il figlio si suicidò. Mohr, disperato per la perdita, decise di lasciare la famiglia e intraprendere il percorso della fede che lo portò a divenire, nel giro di un decennio, vescovo della Chiesa cattolica e maestro di torture della Santa Inquisizione.
Non appena nominato inquisitore, si preoccupò di rinnovare le metodologie e la strumentazione utilizzate nella tortura. “Per ottenere una vera e sincera confessione,” leggiamo da alcune pagine di un suo diario, “è necessario parlare all’anima dell’inquisito, non solo al corpo”. Mohr, che aveva conservato il giocattolo del figlio, riprese quel primo rudimentale modello e lo modificò, collegando un tubo mobile alla tastiera. In questo modo risultava agevole fissare il tubo alla bocca dell’inquisito. Lo strumento veniva utilizzato in combinazione con altri arnesi di tortura come fruste, flagelli e schiacciadita: la vittima urlava dal dolore e soffiava involontariamente nel tubo collegato alla tastiera. Il boia modulava il suono in uscita pigiando i tasti, creando un inquietante sottofondo musicale. Proprio i boia richiesero l’introduzione della settima nota e dei tasti neri, per suonare partiture più complesse e famose.
La clavietta raggiunse così la massima diffusione in tutta Europa mentre il suo inventore, divenuto tanto famoso quanto temuto, venne soprannominato “Mohr Tua”.
Solo in un secondo tempo lo strumento divenne obsoleto. Alcuni anni dopo la morte di Mohr, gli inquisitori si resero conto che i torturati non avrebbero mai potuto confessare: il tubo fissato alla bocca glielo impediva.


***


Fino all’ultimo avevo sperato fosse troppo tardi, avevo cercato di cambiarmi lentamente, di prendere tempo in bagno, di dimenticare lo strumento. Niente da fare. Quando vuoi che il tempo passi velocemente, la lancetta dei secondi rallenta, si ferma, ti concede tutto il tempo di fare quello che sei costretto a fare.
Usciamo. Siamo in macchina. Arriviamo e troviamo subito parcheggio. Che fortuna.
I miei compagni sono già pronti a salire sul palco. La maestra, vedendomi arrivare, si illumina.
« Oh, meno male che sei venuto... mancava il settimo! » non si ricorda il mio nome, la cosa non mi stupisce, ci siamo visti solo alla prima lezione. Mi spiega l’entrata in scena e come si svolgerà l’esibizione musicale. Parla senza pause, io spero mi insegni a suonare in quei due minuti a nostra disposizione ma non succede.
« Maestra, io non ho studiato molto, non so cosa devo fare, non so suonare » le dico candido. La verità è sempre la migliore soluzione, bravo, ho fatto bene a confessare. Sto diventando grande, sono fiero di me.
« Non ti preoccupare, l’importante è che siate in sette, fai quello che fanno i tuoi amici. »


Quello che fanno i tuoi amici.
Io avevo saltato tutte le lezioni pomeridiane di musica per andare in sala giochi. In quei mesi era arrivato un nuovo videogame, “Ghost n' Goblins”: un cavaliere barbone con armatura che combatte zombie per salvare la sua bella. Mentre i miei diligenti compagni di classe pigiavano note con la maestra, preparandosi al saggio, io mi attaccavo al joystick e pigiavo sui pulsanti per fare fuoco, come se la mia vita fosse dipesa veramente da quel gioco virtuale.
Lezioni di musica? Dovevo salvare la principessa, io!
La clavietta la suonavo solo per conto mio, a casa, creando una specie di jazz immaturo e malinconico: se sentivo la nota che cercavo, la tenevo, vi ritornavo; se invece sbagliavo nota, passavo alla successiva, cercando riff strani e stonati che andavo a ripetere più volte. Sono sicuro che qualche boia, ai tempi di Mohr, deve aver avuto la mia stessa sensibilità.


Ora però la gente sghignazza, i miei compagni si toccano il petto,
Mea culpa, mea culpa, mea grandissima culpa,
sorride persino la maestra che continua a gesticolare. Io rimpiango di aver sprecato tutto quel tempo in sala giochi per una principessa che non aveva mai chiesto di essere salvata. Continuo a non capire, cosa dovrei fare secondo loro? I miei compagni hanno già suonato, no? Ho fatto finta di suonare con loro, imbroccando qualche nota.
Cosa volete di più?
Cosa volete tutti da me?
Allora provo da solo e comincio. Prendo maggior coraggio, soffio più forte. Comincio da note basse, risalgo lentamente. Trovo uno dei miei riff, lo ripeto, poi lo modifico, lo lascio per poi ritornarvi. Il mormorio comincia a placarsi. Nessuno avrebbe mai pensato che uno di quei bambini potesse improvvisare un assolo jazz. Così, dal nulla.
Tutti restano in silenzio. Sento di averli in pugno.
E’ il mio grande momento.
“Fatelo smettere, per pietà!” una voce si è levata nell’oscurità e viene accolta da uno scroscio di applausi e risate che sovrastano il suono della clavietta. Smetto di suonare, guardo in basso il legno del palco, sconsolato, la vista mi si appanna. Vorrei alzare gli occhi verso i miei genitori ma sono certo stiano ridendo anche loro. Sento che le lacrime stanno per ultimare questo capolavoro dell’umiliazione mentre le risate e le grida in sala non si arrestano.
In questo momento vorrei essere Manimal, trasformarmi in uccello e volare via, lontano, oppure divenire un giaguaro e divorarli.
Inspiro profondamente. Espiro profondamente.
« Devi girarlo! » mi ripetono « Si, giralo! »
Mi accorgo che gli altri bambini, i sei compagni al mio fianco, hanno un cartello appeso al collo con una cordicella. Su ogni cartello vi è riportata una nota musicale, a grandi caratteri scritti a mano. Li passo in rassegna uno ad uno: “Do”, “Re”, “Mi”, “Fa”, “Sol”, “La”. Il “Si” è appeso al mio collo, dietro la schiena. Gli altri hanno girato la propria nota al segnale convenuto mentre io, preso dal panico di dover salire sul palco, me ne sono completamente dimenticato.
Inspiro profondamente. Espiro profondamente.
Tu, maestra, che hai ideato questa cazzata, sarai la prima ad essere sbranata.

mercoledì 12 settembre 2012

Antipatico in Libreria

Oggi sono sceso dall’autobus un paio di fermate prima, per fare un salto in libreria, nonostante sia la settimana più calda del mese più caldo dell’anno, nella città più calda d’Italia che non è Palermo, dove arriva dal mare blu una leggera brezza, bensì Bologna, dove il mare più vicino dista cento chilometri ed è verde, e dove l’unica cosa che soffia, quando soffia, è il fon di Dio: aria calda sparata contro il nostro sudore appiccicaticcio, per ricordarci che la vita è sofferenza, sopportazione e patimento.
Questa frase mi piace lunga così, non rompere.
E’ da molto che non compro nulla da leggere, negli ultimi anni si sono accumulati troppi libri sul comodino e sul ripiano e sulle mensole e sulla scrivania. Ho così cercato, per diversi mesi fino ad oggi, di frenare quell’istinto all’acquisto selvaggio, paragonabile solo a quello di una quattordicenne con il portafoglio pieno, che si ritrova di fronte a una vetrina di gonne filopassera all’ultima moda. Oggi, invece, mi sono detto “al diavolo, approfittiamo di questa settimana in cui sono ancora tutti al mare, fuori dai coglioni, andiamo alla Feltrinelli sotto le due torri, mi metto a leggere qualcosa a sbafo, c’è l’aria condizionata, magari trovo pure qualcosa di interessante”.
Sarebbe più sano prendere in prestito i libri in Sala Borsa, la grande biblioteca di Bologna situata in Piazza Maggiore, dietro il culo del Nettuno. Purtroppo il messaggio di John Lennon, nella sua bellissima “Imagine”, non ha attecchito come sperato nel mondo occidentale. Dovremo convivere con il concetto di proprietà privata ancora per qualche secolo. Per oggi mi adeguo al mio tempo e seguo il branco. Sono consapevole di aver raggiunto una certa maturità per compiere l’acquisto solo nel caso l’opera sia veramente importante, indispensabile, un’opera che possa espandere i miei orizzonti verso nuove illuminazioni sul senso della vita e la comprensione degli altri. O, viceversa, qualcosa di ben scritto.
Sono entrato e mi sono arrestato alcuni attimi per la differenza di temperatura di una decina di gradi. Mi stupisco sempre quando ciò che percepiamo da fuori si rivela essere diverso da come in effetti è dentro.
Ho attraversato velocemente filosofia e sono infine entrato nella sala dei narratori. Qui ha attirato la mia attenzione un libro di Charles Bukowski che non avevo mai visto, “Il Capitano è fuori a pranzo”. In copertina c’era un disegno di un uomo barbuto con un accappatoio a righe, immerso fino ai fianchi nell’acqua di una piscina, mentre una bionda, di cui era visibile solo la nuca, gli stava facendo presumibilmente un pompino. Magia della prospettiva. Ho letto l’inizio della quarta di copertina: come immaginavo non si trattava di un romanzo ma di una raccolta, pagine di un diario scritto negli ultimi anni di vita. L’ho aperto a una pagina a caso, ho letto alcuni frammenti, l’ho annusato e ho guardato nuovamente la copertina.
“Vieni con me, Charles, consigliami qualche altro libro”.
“A me piace molto Hemingway” mi risponde.
Ho cominciato a scorrere i titoli dei classici. Ho preso in mano “Il Grande Gatsby” di Scott Fitzgerald, libro che già avevo in casa; cominciato poco tempo prima, l’avevo dimenticato sotto qualche altro libro senza terminarlo. Mi sono seduto su una poltroncina e ho cominciato a leggerlo, senza vergognarmi, cosa che succedeva con l’edizione di colore rosa che possedevo, comprata da mia madre trent’anni prima come allegato al giornale “Grazia, il settimanale per le donne sensibili e delicate”. Come se il colore non fosse stato sufficiente vi avevano specificato, in stampatello, che si trattava di un “ROMANZO D’AMORE”. Non avevo mai dato particolare importanza all’aspetto esteriore di un libro ma il mese prima, mentre lo leggevo sull’autobus, un senegalese dalle lunghe treccine mi rivolse parola con accento francese: “un romanzo d’amore, devi avere un animo molto sensibile, comment tu t’appelle?”, “je m’appelle David, scusami, alla prossima fermata devo scendere, ciao”. E’ incredibile come il cervello elabori velocemente e in maniera creativa una via di fuga in caso di pericolo. Mi sono chiesto se qualcuno della redazione di Grazia degli anni ottanta l’avesse mai letto, “Il Grande Gatsby”. Mi piacerebbe andarci, alla redazione di Grazia, verificare se vi lavora qualcuno di allora, parlargli con calma, dirgli che il suo lavoro può avere ripercussioni devastanti sulle nostre vite. Per decenni.
Torno sul libro che ho tra le mani, “Non importa se questa edizione è più sobria”, mi sono detto, “finirò il capitolo per poi lasciarlo dove l’ho preso. Le parole che contiene sono le stesse dell’edizione ambigua, che senso avrebbe ricomprare le stesse identiche parole avvolte da una copertina diversa? Questo libro non è migliore del mio, non è scritto meglio, è lo stesso identico libro”. Il ragionamento non faceva una piega. Ho ripreso a leggere nel silenzio generale della sala deserta.
Una voce squillante di donna, intenta a conversare al cellulare, mi ha distolto improvvisamente dalla lettura. L’ho ascoltata quel tanto che bastava per capire che stava parlando con un’amica, niente di particolarmente importante, chiacchiere sul cane.
Eppure i secondi passavano e la telefonata non terminava.
Mi sono sempre chiesto come fanno le donne a stare tutto quel tempo al telefono. E’ un aspetto che non invidio perchè sono dell’idea che, per citare un poeta ferrarese, “con le nostre discussioni serie si arricchiscono solo le compagnie telefoniche”. Allo stesso tempo mi incuriosisce questa capacità: poter comunicare per così tanto tempo, trasferire così tanti dettagli, particolari apparentemente privi di una qualsiasi minima utilità, sia per loro, sia per me, che per il mondo intero. Eppure, ne sono certo, questo scambio continuo di informazioni, questa mole incredibile e inimmaginabile di esperienze condivise, rende le femmine caratterialmente più forti e preparate ad affrontare la vita rispetto a molti maschi.
Pensando questo ho rinunciato a continuare il Fitzgerald e ho ripreso in mano il Bukowski, per leggere ancora la descrizione sul retro e convincermi definitivamente che fosse un buon acquisto.
La donna continuava a parlare, passando lentamente in rassegna le copertine disposte in ordine sulla lunga tavola che ci separava.
Ho cercato di concentrarmi sulla lettura, benchè gli acuti della donna interrompessero di continuo il flusso dei miei pensieri:  
“le corse di cavalli sembrano l’unica ragione degli anni estremi...”
“Il veterinario ha detto che devo aspettare e portarglielo lunedì”
“anni estremi, trascorsi nell’altalenante routine tra monitor...”
“Ti rendi conto? Stellino sta male male e quello resta in vacanza!”
“tra monitor... tra monitor e ippodromo. Un libro al vetriolo...”
“Ma se stesse male lui e al pronto soccorso fossero in vacanza?”
“Un libro al vetriolo... vetriolo... un libro al vetriolo”.
Ho smesso di leggere, non stavo capendo più nulla. Ho sollevato gli occhi verso la donna, lei lo ha notato e ha ricambiato lo sguardo. Era sulla trentina, aveva un bel viso, sebbene troppo truccato per i miei gusti, ed era ben fatta, con le curve dove dovevano essere. Non l’avevo osservata prima, la voce implacabile e poco armoniosa aveva spento in me qualsiasi curiosità di sapere da quale essere vivente provenisse. Prima ancora che cominciassi a fantasticare su quel corpo, un nuovo assolo telefonico mi ha riportato alla realtà, facendomi giungere alla conclusione che non potevo avere il suo corpo senza quella voce, erano parti di un tutto. Lei continuava a guardarmi mentre parlava con l’amica, gesticolando con la mano libera, denigrando chiunque fosse oggetto del discorso: il veterinario, il ragazzo, il vicino. Quel modo di porsi, saccente e presuntuoso, la faceva assomigliare terribilmente alla mia ex moglie.
Una copertina diversa di un libro che non mi andava di rileggere.
Mantenendo lo sguardo su di lei ho alzato lentamente il Bukowski, mostrandole il disegno dell’uomo in piscina. Lei, sorridendo, ha prima cercato di metterlo a fuoco, protendendosi verso di me, poi vi è riuscita. Lo so per certo perchè ho visto il sorriso spegnersi. La donna si è allontanata condividendo con l’amica la propria indignazione; io ho percepito solo “cafone”, mentre usciva, ma tanto mi è bastato per rallegrarmene.
“In questa sala”, mi sono detto solenne, come fossi Clint Eastwood che ha appena ucciso il cattivo col fucile, “non c’è posto per le parole inutili”.
Una voce radiofonica ha comunicato che la libreria stava per chiudere. Ho pagato e sono uscito dalla libreria, capitan Bukowski era con me e all’ultimo avevo deciso di prendere anche il sobrio Fitzgerald. Ho pensato che, sebbene la cosa più importante sia il contenuto, a volte anche la copertina ha la sua fottuta importanza.  

mercoledì 8 agosto 2012

Red Apple (parte I)



« Come vede, Signor Governatore, sono pronti. Mille esemplari, in tutto e per tutto identici al soggetto originale preso come modello »
« Ottimo, bene, bravi. Che ne avete fatto della dottoressa Stevenson? »
« Eliminata, Signore, così come la sua famiglia e gli amici più stretti »
« Ottimo, bene, bravi. Il procedimento educativo com’è andato? »
« Tutto nella norma, Signor Governatore, non abbiamo mai avuto un ordine così ingente da un cliente. Un ordine... molto originale. Da parte nostra è stato stimolante e proficuo attuarlo »
« Mi illustri la situazione »
« I primi duecento cloni, i due gruppi laggiù sulla sinistra con le uniformi bianche, sono stati educati come psicologhe ed esperte della comunicazione, loro avranno l’incarico di curare le sue prossime campagne elettorali, gli spot neurali e le pubbliche relazioni »
« Ottimo, bene, bravi »
« Dal terzo all’ottavo gruppo, in blu, abbiamo i suoi avvocati, penalisti, giudici, un intero apparato giudiziario pronto ad essere distribuito sulla faccia del pianeta. Nell’ordine, i gruppi in questione parlano spagnolo, portoghese, cinese, arabo, inglese e francese »
« Vive la France »
« Le uniformi nere, nono e decimo gruppo, sono esperte di armi da fuoco, armi bianche, esplosivi e arti marziali. Saranno le sue guardie del corpo o, all’evenienza, killer professionisti »
« Sono tutte molto serie, sembrano delle militari così disposte in gruppi quadrati »
« Sono in attesa di ordini, Signore, sono state addestrate per obbedire a lei solo, come antichi samurai pronti a donare la vita al proprio imperatore »
« Imperatore... Fa rima con Governatore, non è vero? »
« Sì Signore, arguta osservazione »
« E quell’ultimo gruppo laggiù, quello rosso? Non mi pare di aver ordinato altro »
« Quello è un omaggio della ditta, Signor Governatore. Sarà il suo harem personale»
« Siete degli idioti! Che me ne faccio di un gruppo di donne tutte uguali? »
« Signore, abbiamo colto l’occasione per sperimentare mutazioni genetiche indotte che permettono di intervenire sulla coltivazione del corpo durante i primi due anni di vita relativa »
« Interessante, continui »
« Nei pochi giorni a nostra disposizione è possibile modellare la forma del corpo a piacimento, abbiamo quindi voluto migliorare la forma del soggetto originale di partenza, secondo i diversi canoni estetici definiti dal Sistema Internazionale, senza nulla togliere alla bellezza della dottoressa Stevenson che, devo ammettere... »
« Seni e sederi più grandi, lo noto solo ora, è vero, non sono uguali alle altre, là dietro nelle ultime file ne vedo anche alcune bionde, geniale! »
« Ognuna di esse è stata inoltre educata fin dalla nascita ad eseguire con maestria ogni pratica sessuale conosciuta. Fa parte di uno dei progetti per il prossimo anno, il “Red Apple 2069”. Vogliamo invadere il mercato con… »
« Non mi interessa il vostro business, cos’altro sanno fare le rosse? »
« Ogni esemplare è stato programmato per memorizzare un settore completo dello scibile umano su cui può compiere riflessioni, deduzioni e ipotesi. Questo particolare indottrinamento ha permesso di ottenere caratteri comportamentali diversi, dipendentemente dalla materia di studio. Scoprirà lei stesso come l’educazione di stampo umanistico abbia influito in modo più marcato sulla socialità e apertura mentale dei soggetti rispetto a quello scientifico. A partire da sinistra abbiamo storia, filosofia, letteratura, teatro, cinema, musica,  ... »
« Sbalorditivo! Con ognuna di loro potrei parlare per ore di ogni argomento conosciuto! »
« Esatto, Signore »
« E se poi mi stanco? Voglio dire, mia moglie parla per ore, ne ho già abbastanza »
« Qui pensiamo a tutto, Signore, all’occorrenza è possibile impostare la modalità silenziosa »
« Cosa sarebbe? »
« E' possibile impartire un comando tramite una parola d’ordine che agisce direttamente nel loro subconscio, inibendo il desiderio di parlare »
« Ottimo, bene, bravi. Questo esercito di cloni mi permetterà di conquistare il mondo intero! »
« Sì, Signor Governatore »
« Il pagamento dei sette milioni di crediti avverrà nel giro di pochi secondi »
« Grazie, Signor Governatore »
« Nel frattempo mandi nel mio alloggio un clone del gruppo rosso »
« Qualche indicazione? »
« Quella con le tette più grandi »
« Sì, Signor Governatore, altro? »
« Qual è la parola d’ordine? »



domenica 5 agosto 2012

Caldo Dentro

La mattina, mentre vado a lavoro in autobus, leggo.
E’ un viaggio di venticinque minuti che negli anni ho imparato ad apprezzare molto, fino a poter affermare che la mia serenità dipende da questo breve tragitto.
Ho trovato posto a sedere e sto concludendo “Festa Mobile”. In questa serie di racconti Ernest Hemingway descrive una Parigi affascinante, che ha veramente vissuto negli anni venti, in prima persona, conoscendo artisti che oggi sono noti in tutto il mondo, come James Joyce, Pablo Picasso, Scott Fitzgerald.
Alzo gli occhi, vedo le due torri in avvicinamento davanti all’autobus e penso che Bologna sia come una piccola Parigi, con i suoi piccoli artisti desiderosi di emergere e nello stesso tempo di affogare nell’alcol. Proprio come la “generazione perduta” del libro. Non ne conosco molti, di artisti, e quei pochi che conosco sono poco inclini ad ascoltare gli altri, poco sinceri nel raccontare se stessi, sanno lamentarsi, non sanno bere, criticano molto, esprimono poco.
I racconti più interessanti del libro parlano di Scott Fitzgerald. Anche in uno degli ultimi film di Woody Allen, il personaggio di Fitzgerald è tra le figure più interessanti. Il grande Fitzgerald. Il grande Francis Scott Fitzgerald che ha scritto “Il Grande Gatsby”. Mai letto niente di lui. Comunque il nome mi è noto, c’è una vecchia canzone di Bob Dylan, una delle mie preferite, che nomina i suoi libri come opere per intellettuali o presunti tali. Mi dico che, come presunto intellettuale, dovrei leggerne qualcuno anch’io.
Smetto di divagare e ritorno con la testa sul libro, per finire l’ultima pagina.
E’ estate, fuori c’è un’afa insopportabile mentre dentro c’è un freddo innaturale che mi pare duri da un’eternità. I condizionatori sui mezzi pubblici funzionano a pieno regime o non funzionano per niente.  
Alzo gli occhi, c’è una ragazza seduta davanti a me, osserva la copertina del libro su cui è stampato il faccione di Ernest con la barba bianca. La ragazza sposta lo sguardo sulla mia, di barba, sorride divertita. Anche a me farebbe ridere un barbuto che legge un barbuto. Ricambio il sorriso, chiudo il libro, guardo fuori dal finestrino dell’autobus, mancano un paio di fermate.
“E’ bello?” i suoi occhi sono scuri, gli occhi che vorrei avvesse un giorno mia figlia.
“E’ sincero” rispondo ripetendo ciò che Hemingway ha scritto di se stesso, per darmi un tono.
“E tu lo sei?” mi chiede.
“Sempre” mento, sorridendo.
Se potessi avere il dono dell’ubiquità probabilmente mi prenderei a sberle. Lei ricambia il sorriso, non le sembro così patetico come invece risulto a me stesso. Cominciamo a parlare del libro, di Parigi, di Fitzgerald, Woody Allen e Bob Dylan, per un tempo che è troppo breve, siamo già alla mia fermata e io non ho detto abbastanza cose inutili, abbastanza per poterle chiedere di rivederci. La saluto, mi alzo, ci scambiamo uno sguardo dicendoci senza parole “purtroppo è andata così”, leggo sincero dispiacere sul suo viso. Mentre mi avvicino all’uscita mi chiedo se ci rivedremo ancora, a Bologna prima o poi rincotri tutti, a differenza di Parigi. Le porte centrali dell’autobus si aprono, esito, una vecchietta alle mie spalle mi rimprovera, allora scendo sul marciapiede e faccio passare l’anziana signora. Risalgo subito, un attimo prima che le porte si richiudano. Raggiungo occhi scuri e mi siedo, lei sorride stupita, raggiante, non mi chiede perchè non sono sceso, lo sa già. L’autobus riparte, le cicale continuano il loro concerto confuso, io le racconto altre cose inutili, un numero di cose inutili sufficiente per chiederle di rivederci l’indomani.

Continuo a prendere l’autobus.
Continuo a leggere.
Continuo a portare la barba.
E’ nuovamente estate, fuori c’è un’afa insopportabile, il condizionatore dell’autobus è fuori uso ma a me non dispiace, va bene così, con il caldo dentro.